PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM
21 novembre 1964
CAPITOLO I
IL MISTERO DELLA CHIESA
La Chiesa è sacramento in Cristo
1. Cristo è la luce delle genti: questo
santo Concilio, adunato nello Spirito Santo,
desidera dunque ardentemente, annunciando il
Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15),
illuminare tutti gli uomini con la luce del
Cristo che risplende sul volto della Chiesa.
E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche
modo il sacramento, ossia il segno e lo
strumento dell'intima unione con Dio e
dell'unità di tutto il genere umano,
continuando il tema dei precedenti Concili,
intende con maggiore chiarezza illustrare ai
suoi fedeli e al mondo intero la propria
natura e la propria missione universale. Le
presenti condizioni del mondo rendono più
urgente questo dovere della Chiesa, affinché
tutti gli uomini, oggi più strettamente
congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici
e culturali, possano anche conseguire la
piena unità in Cristo.
Disegno salvifico universale del
Padre
2. L'eterno Padre, con liberissimo e
arcano disegno di sapienza e di bontà, creò
l'universo; decise di elevare gli uomini
alla partecipazione della sua vita divina;
dopo la loro caduta in Adamo non li
abbandonò, ma sempre prestò loro gli aiuti
per salvarsi, in considerazione di Cristo
redentore, « il quale è l'immagine
dell'invisibile Dio, generato prima di ogni
creatura » (Col 1,15). Tutti infatti quelli
che ha scelto, il Padre fino dall'eternità «
li ha distinti e li ha predestinati a essere
conformi all'immagine del Figlio suo,
affinché egli sia il primogenito tra molti
fratelli » (Rm 8,29). I credenti in Cristo,
li ha voluti chiamare a formare la santa
Chiesa, la quale, già annunciata in figure
sino dal principio del mondo, mirabilmente
preparata nella storia del popolo d'Israele
e nell'antica Alleanza [1],
stabilita infine « negli ultimi tempi », è
stata manifestata dall'effusione dello
Spirito e avrà glorioso compimento alla fine
dei secoli. Allora, infatti, come si legge
nei santi Padri, tutti i giusti, a partire
da Adamo, « dal giusto Abele fino all'ultimo
eletto » [2],
saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa
universale.
Missione del Figlio
3. È venuto quindi il Figlio, mandato dal
Padre, il quale ci ha scelti in lui prima
della fondazione del mondo e ci ha
predestinati ad essere adottati in figli,
perché in lui volle accentrare tutte le cose
(cfr. Ef 1,4-5 e 10). Perciò Cristo, per
adempiere la volontà del Padre, ha
inaugurato in terra il regno dei cieli e ci
ha rivelato il mistero di lui, e con la sua
obbedienza ha operato la redenzione. La
Chiesa, ossia il regno di Cristo già
presente in mistero, per la potenza di Dio
cresce visibilmente nel mondo. Questo inizio
e questa crescita sono significati dal
sangue e dall'acqua, che uscirono dal
costato aperto di Gesù crocifisso (cfr. Gv
19,34), e sono preannunziati dalle parole
del Signore circa la sua morte in croce: «
Ed io, quando sarò levato in alto da terra,
tutti attirerò a me » (Gv 12,32). Ogni volta
che il sacrificio della croce, col quale
Cristo, nostro agnello pasquale, è stato
immolato (cfr. 1 Cor 5,7), viene celebrato
sull'altare, si rinnova l'opera della nostra
redenzione. E insieme, col sacramento del
pane eucaristico, viene rappresentata ed
effettuata l'unità dei fedeli, che
costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr.
1 Cor 10,17). Tutti gli uomini sono chiamati
a questa unione con Cristo, che è la luce
del mondo; da lui veniamo, per mezzo suo
viviamo, a lui siamo diretti.
Lo Spirito santificatore della
Chiesa
4. Compiuta l'opera che il Padre aveva
affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv
17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo
Spirito Santo per santificare continuamente
la Chiesa e affinché i credenti avessero
così attraverso Cristo accesso al Padre in
un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo
Spirito che dà la vita, una sorgente di
acqua zampillante fino alla vita eterna
(cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo suo il
Padre ridà la vita agli uomini, morti per il
peccato, finché un giorno risusciterà in
Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm
8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e
nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr.
1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende
testimonianza della loro condizione di figli
di Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm
8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa
nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13),
la unifica nella comunione e nel ministero,
la provvede e dirige con diversi doni
gerarchici e carismatici, la abbellisce dei
suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4;
Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa
ringiovanire, continuamente la rinnova e la
conduce alla perfetta unione col suo Sposo [3].
Poiché lo Spirito e la sposa dicono al
Signore Gesù: « Vieni » (cfr. Ap 22,17).
Così la Chiesa universale si presenta
come « un popolo che deriva la sua unità
dall'unità del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo » [4].
Il regno di Dio
5. Il mistero della santa Chiesa si
manifesta nella sua stessa fondazione. Il
Signore Gesù, infatti, diede inizio ad essa
predicando la buona novella, cioè l'avvento
del regno di Dio da secoli promesso nella
Scrittura: « Poiché il tempo è compiuto, e
vicino è il regno di Dio » (Mc 1,15; cfr. Mt
4,17). Questo regno si manifesta chiaramente
agli uomini nelle parole, nelle opere e
nella presenza di Cristo. La parola del
Signore è paragonata appunto al seme che
viene seminato nel campo (cfr. Mc 4,14):
quelli che lo ascoltano con fede e
appartengono al piccolo gregge di Cristo
(cfr. Lc 12,32), hanno accolto il regno
stesso di Dio; poi il seme per virtù propria
germoglia e cresce fino al tempo del
raccolto (cfr. Mc 4,26-29). Anche i miracoli
di Gesù provano che il regno è arrivato
sulla terra: « Se con il dito di Dio io
scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra
voi il regno di Dio » (Lc 11,20; cfr. Mt
12,28). Ma innanzi tutto il regno si
manifesta nella stessa persona di Cristo,
figlio di Dio e figlio dell'uomo, il quale è
venuto « a servire, e a dare la sua vita in
riscatto per i molti » (Mc 10,45). Quando
poi Gesù, dopo aver sofferto la morte in
croce per gli uomini, risorse, apparve quale
Signore e messia e sacerdote in eterno (cfr.
At 2,36; Eb 5,6; 7,17-21), ed effuse sui
suoi discepoli lo Spirito promesso dal Padre
(cfr. At 2,33). La Chiesa perciò, fornita
dei doni del suo fondatore e osservando
fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà
e abnegazione, riceve la missione di
annunziare e instaurare in tutte le genti il
regno di Cristo e di Dio, e di questo regno
costituisce in terra il germe e l'inizio.
Intanto, mentre va lentamente crescendo,
anela al regno perfetto e con tutte le sue
forze spera e brama di unirsi col suo re
nella gloria.
Le immagini della Chiesa
6. Come già nell'Antico Testamento la
rivelazione del regno viene spesso proposta
in figure, così anche ora l'intima natura
della Chiesa ci si fa conoscere attraverso
immagini varie, desunte sia dalla vita
pastorale o agricola, sia dalla costruzione
di edifici o anche dalla famiglia e dagli
sponsali, e che si trovano già abbozzate nei
libri dei profeti.
La Chiesa infatti è un ovile, la cui
porta unica e necessaria è Cristo (cfr. Gv
10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio
stesso ha preannunziato che ne sarebbe il
pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss), e le
cui pecore, anche se governate da pastori
umani, sono però incessantemente condotte al
pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il
buon Pastore e principe dei pastori (cfr. Gv
10,11; 1 Pt 5,4), il quale ha dato la vita
per le pecore (cfr. Gv 10,11-15).
La Chiesa è il podere o campo di Dio
(cfr. 1 Cor 3,9). In quel campo cresce
l'antico olivo, la cui santa radice sono
stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e
avverrà la riconciliazione dei Giudei e
delle Genti (cfr. Rm 11,13-26). Essa è stata
piantata dal celeste agricoltore come vigna
scelta (Mt 21,33-43, par.; cfr. Is 5,1 ss).
Cristo è la vera vite, che dà vita e
fecondità ai tralci, cioè a noi, che per
mezzo della Chiesa rimaniamo in lui, e senza
di lui nulla possiamo fare (cfr. Gv 15,1-5).
Più spesso ancora la Chiesa è detta
edificio di Dio (cfr. 1 Cor 3,9). Il Signore
stesso si paragonò alla pietra che i
costruttori hanno rigettata, ma che è
divenuta la pietra angolare (Mt 21,42 par.).
Sopra quel fondamento la Chiesa è costruita
dagli apostoli (cfr. 1 Cor 3,11) e da esso
riceve stabilità e coesione. Questo edificio
viene chiamato in varie maniere: casa di Dio
(cfr. 1 Tm 3,15), nella quale cioè abita la
sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito
(cfr. Ef 2,19-22), la dimora di Dio con gli
uomini (cfr. Ap 21,3), e soprattutto tempio
santo, il quale, rappresentato dai santuari
di pietra, è l'oggetto della lode dei santi
Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla
liturgia alla città santa, la nuova
Gerusalemme [5].
In essa infatti quali pietre viventi veniamo
a formare su questa terra un tempio
spirituale (cfr. 1 Pt 2,5). E questa città
santa Giovanni la contempla mentre, nel
momento in cui si rinnoverà il mondo, scende
dal cielo, da presso Dio, « acconciata come
sposa adornatasi per il suo sposo » (Ap
21,1s).
La Chiesa, chiamata « Gerusalemme celeste
» e « madre nostra » (Gal 4,26; cfr. Ap
12,17), viene pure descritta come
l'immacolata sposa dell'Agnello immacolato
(cfr. Ap 19,7; 21,2 e 9; 22,17), sposa che
Cristo « ha amato.. . e per essa ha dato se
stesso, al fine di santificarla » (Ef 5,26),
che si è associata con patto indissolubile
ed incessantemente « nutre e cura » (Ef
5,29), che dopo averla purificata, volle a
sé congiunta e soggetta nell'amore e nella
fedeltà (cfr. Ef 5,24), e che, infine, ha
riempito per sempre di grazie celesti, onde
potessimo capire la carità di Dio e di
Cristo verso di noi, carità che sorpassa
ogni conoscenza (cfr. Ef 3,19). Ma mentre la
Chiesa compie su questa terra il suo
pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2
Cor 5,6), è come un esule, e cerca e pensa
alle cose di lassù, dove Cristo siede alla
destra di Dio, dove la vita della Chiesa è
nascosta con Cristo in Dio, fino a che col
suo sposo comparirà rivestita di gloria
(cfr. Col 3,1-4).
La Chiesa, corpo mistico di Cristo
7. Il Figlio di Dio, unendo a sé la
natura umana e vincendo la morte con la sua
morte e resurrezione, ha redento l'uomo e
l'ha trasformato in una nuova creatura (cfr.
Gal 6,15; 2 Cor 5,17). Comunicando infatti
il suo Spirito, costituisce misticamente
come suo corpo i suoi fratelli, che
raccoglie da tutte le genti.
In quel corpo la vita di Cristo si
diffonde nei credenti che, attraverso i
sacramenti si uniscono in modo arcano e
reale a lui sofferente e glorioso [6].
Per mezzo del battesimo siamo resi conformi
a Cristo: « Infatti noi tutti « fummo
battezzati in un solo Spirito per costituire
un solo corpo » (1 Cor 12,13). Con questo
sacro rito viene rappresentata e prodotta la
nostra unione alla morte e resurrezione di
Cristo: « Fummo dunque sepolti con lui per
l'immersione a figura della morte »; ma se,
fummo innestati a lui in una morte simile
alla sua, lo saremo anche in una
resurrezione simile alla sua » (Rm 6,4-5).
Partecipando realmente del corpo del Signore
nella frazione del pane eucaristico, siamo
elevati alla comunione con lui e tra di noi:
« Perché c'è un solo pane, noi tutti non
formiamo che un solo corpo, partecipando noi
tutti di uno stesso pane» (1 Cor 10,17).
Così noi tutti diventiamo membri di quel
corpo (cfr. 1 Cor 12,27), «e siamo membri
gli uni degli altri» (Rm 12,5).
Ma come tutte le membra del corpo umano,
anche se numerose, non formano che un solo
corpo così i fedeli in Cristo (cfr. 1 Cor
12,12). Anche nella struttura del corpo
mistico di Cristo vige una diversità di
membri e di uffici. Uno è lo Spirito, il
quale per l'utilità della Chiesa
distribuisce la varietà dei suoi doni con
magnificenza proporzionata alla sua
ricchezza e alle necessità dei ministeri
(cfr. 1 Cor 12,1-11). Fra questi doni
eccelle quello degli apostoli, alla cui
autorità lo stesso Spirito sottomette anche
i carismatici (cfr. 1 Cor 14). Lo Spirito,
unificando il corpo con la sua virtù e con
l'interna connessione dei membri, produce e
stimola la carità tra i fedeli. E quindi se
un membro soffre, soffrono con esso tutte le
altre membra; se un membro è onorato, ne
gioiscono con esso tutte le altre membra
(cfr. 1 Cor 12,26).
Capo di questo corpo è Cristo. Egli è
l'immagine dell'invisibile Dio, e in lui
tutto è stato creato. Egli è anteriore a
tutti, e tutte le cose sussistono in lui. È
il capo del corpo, che è la Chiesa. È il
principio, il primo nato di tra i morti,
affinché abbia il primato in tutto (cfr. Col
1,15-18). Con la grandezza della sua potenza
domina sulle cose celesti e terrestri, e con
la sua perfezione e azione sovrana riempie
delle ricchezze della sua gloria tutto il
suo corpo (cfr. Ef 1,18-23) [7].
Tutti i membri devono a lui conformarsi,
fino a che Cristo non sia in essi formato
(cfr. Gal 4,19). Per ciò siamo collegati ai
misteri della sua vita, resi conformi a lui,
morti e resuscitati con lui, finché con lui
regneremo (cfr. Fil 3,21; 2 Tm 2,11; Ef
2,6). Ancora peregrinanti in terra, mentre
seguiamo le sue orme nella tribolazione e
nella persecuzione, veniamo associati alle
sue sofferenze, come il corpo al capo e
soffriamo con lui per essere con lui
glorificati (cfr. Rm 8,17). Da lui « tutto
il corpo ben fornito e ben compaginato, per
mezzo di giunture e di legamenti, riceve
l'aumento voluto da Dio » (Col 2,19). Nel
suo corpo, che è la Chiesa, egli
continuamente dispensa i doni dei ministeri,
con i quali, per virtù sua, ci aiutiamo
vicendevolmente a salvarci e, operando nella
carità conforme a verità, andiamo in ogni
modo crescendo verso colui, che è il nostro
capo (cfr. Ef 5,11-16 gr.).
Perché poi ci rinnovassimo continuamente
in lui (cfr. Ef 4,23), ci ha resi partecipi
del suo Spirito, il quale, unico e identico
nel capo e nelle membra, dà a tutto il corpo
vita, unità e moto, così che i santi Padri
poterono paragonare la sua funzione con
quella che il principio vitale, cioè
l'anima, esercita nel corpo umano [8].
Cristo inoltre ama la Chiesa come sua sposa,
facendosi modello del marito che ama la
moglie come il proprio corpo (cfr. Ef
5,25-28); la Chiesa poi è soggetta al suo
capo. E poiché «in lui abita congiunta
all'umanità la pienezza della divinità »
(Col 2,9), egli riempie dei suoi doni la
Chiesa la quale è il suo corpo e la sua
pienezza (cfr. Ef 1,22-23), affinché essa
sia protesa e pervenga alla pienezza totale
di Dio (cfr. Ef 3,19).
La Chiesa, realtà visibile e
spirituale
8. Cristo, unico mediatore, ha costituito
sulla terra e incessantemente sostenta la
sua Chiesa santa, comunità di fede, di
speranza e di carità [9],
quale organismo visibile, attraverso il
quale diffonde per tutti la verità e la
grazia. Ma la società costituita di organi
gerarchici e il corpo mistico di Cristo,
l'assemblea visibile e la comunità
spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa
arricchita di beni celesti, non si devono
considerare come due cose diverse; esse
formano piuttosto una sola complessa realtà
risultante di un duplice elemento, umano e
divino [10].
Per una analogia che non è senza valore,
quindi, è paragonata al mistero del Verbo
incarnato. Infatti, come la natura assunta
serve al Verbo divino da vivo organo di
salvezza, a lui indissolubilmente unito,
così in modo non dissimile l'organismo
sociale della Chiesa serve allo Spirito di
Cristo che la vivifica, per la crescita del
corpo (cfr. Ef 4,16) [11].
Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che
nel Simbolo professiamo una, santa,
cattolica e apostolica [12]
e che il Salvatore nostro, dopo la sua
resurrezione, diede da pascere a Pietro
(cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e agli
altri apostoli la diffusione e la guida
(cfr. Mt 28,18ss), e costituì per sempre
colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm
3,15). Questa Chiesa, in questo mondo
costituita e organizzata come società,
sussiste nella Chiesa cattolica, governata
dal successore di Pietro e dai vescovi in
comunione con lui [13],
ancorché al di fuori del suo organismo si
trovino parecchi elementi di santificazione
e di verità, che, appartenendo propriamente
per dono di Dio alla Chiesa di Cristo,
spingono verso l'unità cattolica. Come
Cristo ha compiuto la redenzione attraverso
la povertà e le persecuzioni, così pure la
Chiesa e chiamata a prendere la stessa via
per comunicare agli uomini i frutti della
salvezza. Gesù Cristo « che era di
condizione divina... spogliò se stesso,
prendendo la condizione di schiavo » (Fil
2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece
povero » (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa,
quantunque per compiere la sua missione
abbia bisogno di mezzi umani, non è
costituita per cercare la gloria terrena,
bensì per diffondere, anche col suo esempio,
l'umiltà e l'abnegazione. Come Cristo
infatti è stato inviato dal Padre « ad
annunciare la buona novella ai poveri, a
guarire quei che hanno il cuore contrito » (Lc
4,18), « a cercare e salvare ciò che era
perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa
circonda d'affettuosa cura quanti sono
afflitti dalla umana debolezza, anzi
riconosce nei poveri e nei sofferenti
l'immagine del suo fondatore, povero e
sofferente, si fa premura di sollevarne la
indigenza e in loro cerca di servire il
Cristo. Ma mentre Cristo, « santo,
innocente, immacolato » (Eb 7,26), non
conobbe il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne
solo allo scopo di espiare i peccati del
popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che
comprende nel suo seno peccatori ed è perciò
santa e insieme sempre bisognosa di
purificazione, avanza continuamente per il
cammino della penitenza e del rinnovamento.
La Chiesa « prosegue il suo pellegrinaggio
fra le persecuzioni del mondo e le
consolazioni di Dio » [14],
annunziando la passione e la morte del
Signore fino a che egli venga (cfr. 1 Cor
11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato
trae la forza per vincere con pazienza e
amore le afflizioni e le difficoltà, che le
vengono sia dal di dentro che dal di fuori,
e per svelare in mezzo al mondo, con
fedeltà, anche se non perfettamente, il
mistero di lui, fino a che alla fine dei
tempi esso sarà manifestato nella pienezza
della luce.
CAPITOLO IIIL POPOLO DI
DIO
Nuova alleanza e nuovo popolo
9. In ogni tempo e in ogni nazione è
accetto a Dio chiunque lo teme e opera la
giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio
volle santificare e salvare gli uomini non
individualmente e senza alcun legame tra
loro, ma volle costituire di loro un popolo,
che lo riconoscesse secondo la verità e lo
servisse nella santità.
Scelse quindi per sé il popolo israelita,
stabilì con lui un'alleanza e lo formò
lentamente, manifestando nella sua storia se
stesso e i suoi disegni e santificandolo per
sé. Tutto questo però avvenne in
preparazione e figura di quella nuova e
perfetta alleanza da farsi in Cristo, e di
quella più piena rivelazione che doveva
essere attuata per mezzo del Verbo stesso di
Dio fattosi uomo. « Ecco venir giorni
(parola del Signore) nei quali io stringerò
con Israele e con Giuda un patto nuovo...
Porrò la mia legge nei loro cuori e nelle
loro menti l'imprimerò; essi mi avranno per
Dio ed io li avrò per il mio popolo... Tutti
essi, piccoli e grandi, mi riconosceranno,
dice il Signore » (Ger 31,31-34). Cristo
istituì questo nuovo patto cioè la nuova
alleanza nel suo sangue (cfr. 1 Cor 11,25),
chiamando la folla dai Giudei e dalle
nazioni, perché si fondesse in unità non
secondo la carne, ma nello Spirito, e
costituisse il nuovo popolo di Dio. Infatti
i credenti in Cristo, essendo stati
rigenerati non di seme corruttibile, ma di
uno incorruttibile, che è la parola del Dio
vivo (cfr. 1 Pt 1,23), non dalla carne ma
dall'acqua e dallo Spirito Santo (cfr. Gv
3,5-6), costituiscono « una stirpe eletta,
un sacerdozio regale, una nazione santa, un
popolo tratto in salvo... Quello che un
tempo non era neppure popolo, ora invece è
popolo di Dio » (1 Pt 2,9-10).
Questo popolo messianico ha per capo
Cristo « dato a morte per i nostri peccati e
risuscitato per la nostra giustificazione »
(Rm 4,25), e che ora, dopo essersi
acquistato un nome che è al di sopra di ogni
altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per
condizione la dignità e la libertà dei figli
di Dio, nel cuore dei quali dimora lo
Spirito Santo come in un tempio. Ha per
legge il nuovo precetto di amare come lo
stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E
finalmente, ha per fine il regno di Dio,
incominciato in terra dallo stesso Dio, e
che deve essere ulteriormente dilatato,
finché alla fine dei secoli sia da lui
portato a compimento, quando comparirà
Cristo, vita nostra (cfr. Col 3,4) e « anche
le stesse creature saranno liberate dalla
schiavitù della corruzione per partecipare
alla gloriosa libertà dei figli di Dio » (Rm
8,21). Perciò il popolo messianico, pur non
comprendendo effettivamente l'universalità
degli uomini e apparendo talora come un
piccolo gregge, costituisce tuttavia per
tutta l'umanità il germe più forte di unità,
di speranza e di salvezza. Costituito da
Cristo per una comunione di vita, di carità
e di verità, è pure da lui assunto ad essere
strumento della redenzione di tutti e, quale
luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt
5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Come già l'Israele secondo la carne
peregrinante nel deserto viene chiamato
Chiesa di Dio (Dt 23,1 ss.), così il nuovo
Israele dell'era presente, che cammina alla
ricerca della città futura e permanente
(cfr. Eb 13,14), si chiama pure Chiesa di
Cristo (cfr. Mt 16,18); è il Cristo infatti
che l'ha acquistata col suo sangue (cfr. At
20,28), riempita del suo Spirito e fornita
di mezzi adatti per l'unione visibile e
sociale. Dio ha convocato tutti coloro che
guardano con fede a Gesù, autore della
salvezza e principio di unità e di pace, e
ne ha costituito la Chiesa, perché sia agli
occhi di tutti e di ciascuno, il sacramento
visibile di questa unità salvifica [15].
Dovendosi essa estendere a tutta la terra,
entra nella storia degli uomini, benché allo
stesso tempo trascenda i tempi e i confini
dei popoli, e nel suo cammino attraverso le
tentazioni e le tribolazioni è sostenuta
dalla forza della grazia di Dio che le è
stata promessa dal Signore, affinché per la
umana debolezza non venga meno alla perfetta
fedeltà ma permanga degna sposa del suo
Signore, e non cessi, con l'aiuto dello
Spirito Santo, di rinnovare se stessa,
finché attraverso la croce giunga alla luce
che non conosce tramonto.
Il sacerdozio comune dei fedeli
10. Cristo Signore, pontefice assunto di
mezzo agli uomini (cfr. Eb 5,1-5), fece del
nuovo popolo « un regno e sacerdoti per il
Dio e il Padre suo » (Ap 1,6; cfr. 5,9-10).
Infatti per la rigenerazione e l'unzione
dello Spirito Santo i battezzati vengono
consacrati per formare un tempio spirituale
e un sacerdozio santo, per offrire, mediante
tutte le attività del cristiano, spirituali
sacrifici, e far conoscere i prodigi di
colui, che dalle tenebre li chiamò
all'ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10).
Tutti quindi i discepoli di Cristo,
perseverando nella preghiera e lodando
insieme Dio (cfr. At 2,42-47), offrano se
stessi come vittima viva, santa, gradevole a
Dio (cfr. Rm 12,1), rendano dovunque
testimonianza di Cristo e, a chi la
richieda, rendano ragione della speranza che
è in essi di una vita eterna (cfr. 1 Pt
3,15) Il sacerdozio comune dei fedeli e il
sacerdozio ministeriale o gerarchico,
quantunque differiscano essenzialmente e non
solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno
all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a
suo proprio modo, partecipano dell'unico
sacerdozio di Cristo [16].
Il sacerdote ministeriale, con la potestà
sacra di cui è investito, forma e regge il
popolo sacerdotale, compie il sacrificio
eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a
Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in
virtù del loro regale sacerdozio, concorrono
all'offerta dell'Eucaristia [17],
ed esercitano il loro sacerdozio col
ricevere i sacramenti, con la preghiera e il
ringraziamento, con la testimonianza di una
vita santa, con l'abnegazione e la carità
operosa.
Il sacerdozio comune esercitato nei
sacramenti
11. Il carattere sacro e organico della
comunità sacerdotale viene attuato per mezzo
dei sacramenti e delle virtù. I fedeli,
incorporati nella Chiesa col battesimo, sono
destinati al culto della religione cristiana
dal carattere sacramentale; rigenerati quali
figli di Dio, sono tenuti a professare
pubblicamente la fede ricevuta da Dio
mediante la Chiesa [18].
Col sacramento della confermazione vengono
vincolati più perfettamente alla Chiesa,
sono arricchiti di una speciale forza dallo
Spirito Santo e in questo modo sono più
strettamente obbligati a diffondere e a
difendere la fede con la parola e con
l'opera [19],
come veri testimoni di Cristo. Partecipando
al sacrificio eucaristico, fonte e apice di
tutta la vita cristiana, offrono a Dio la
vittima divina e se stessi [20]
con essa così tutti, sia con l'offerta che
con la santa comunione, compiono la propria
parte nell'azione liturgica, non però in
maniera indifferenziata, bensì ciascuno a
modo suo. Cibandosi poi del corpo di Cristo
nella santa comunione, mostrano
concretamente la unità del popolo di Dio,
che da questo augustissimo sacramento è
adeguatamente espressa e mirabilmente
effettuata.
Quelli che si accostano al sacramento
della penitenza, ricevono dalla misericordia
di Dio il perdono delle offese fatte a lui;
allo stesso tempo si riconciliano con la
Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita
col peccato e che coopera alla loro
conversione con la carità, l'esempio e la
preghiera. Con la sacra unzione degli
infermi e la preghiera dei sacerdoti, tutta
la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore
sofferente e glorificato, perché
alleggerisca le loro pene e li salvi (cfr.
Gc 5,14-16), anzi li esorta a unirsi
spontaneamente alla passione e morte di
Cristo (cfr. Rm 8,17; Col 1,24), per
contribuire così al bene del popolo di Dio.
Inoltre, quelli tra i fedeli che vengono
insigniti dell'ordine sacro sono posti in
nome di Cristo a pascere la Chiesa colla
parola e la grazia di Dio. E infine i
coniugi cristiani, in virtù del sacramento
del matrimonio, col quale significano e
partecipano il mistero di unità e di fecondo
amore che intercorre tra Cristo e la Chiesa
(cfr. Ef 5,32), si aiutano a vicenda per
raggiungere la santità nella vita coniugale;
accettando ed educando la prole essi hanno
così, nel loro stato di vita e nella loro
funzione, il proprio dono in mezzo al popolo
di Dio [21].
Da questa missione, infatti, procede la
famiglia, nella quale nascono i nuovi
cittadini della società umana, i quali per
la grazia dello Spirito Santo diventano col
battesimo figli di Dio e perpetuano
attraverso i secoli il suo popolo. In questa
che si potrebbe chiamare Chiesa domestica, i
genitori devono essere per i loro figli i
primi maestri della fede e secondare la
vocazione propria di ognuno, quella sacra in
modo speciale.
Muniti di salutari mezzi di una tale
abbondanza e d'una tale grandezza, tutti i
fedeli d'ogni stato e condizione sono
chiamati dal Signore, ognuno per la sua via,
a una santità, la cui perfezione è quella
stessa del Padre celeste.
Il senso della fede e i carismi nel
popolo di Dio
12. Il popolo santo di Dio partecipa pure
dell'ufficio profetico di Cristo col
diffondere dovunque la viva testimonianza di
lui, soprattutto per mezzo di una vita di
fede e di carità, e coll'offrire a Dio un
sacrificio di lode, cioè frutto di labbra
acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15). La
totalità dei fedeli, avendo l'unzione che
viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non
può sbagliarsi nel credere, e manifesta
questa sua proprietà mediante il senso
soprannaturale della fede di tutto il
popolo, quando « dai vescovi fino agli
ultimi fedeli laici » [22]
mostra l'universale suo consenso in cose di
fede e di morale. E invero, per quel senso
della fede, che è suscitato e sorretto dallo
Spirito di verità, e sotto la guida del
sacro magistero, il quale permette, se gli
si obbedisce fedelmente, di ricevere non più
una parola umana, ma veramente la parola di
Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio
aderisce indefettibilmente alla fede
trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr.
Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa
più a fondo e più pienamente l'applica nella
vita.
Inoltre lo Spirito Santo non si limita a
santificare e a guidare il popolo di Dio per
mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad
adornarlo di virtù, ma « distribuendo a
ciascuno i propri doni come piace a lui » (1
Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di
ogni ordine grazie speciali, con le quali li
rende adatti e pronti ad assumersi vari
incarichi e uffici utili al rinnovamento e
alla maggiore espansione della Chiesa
secondo quelle parole: « A ciascuno la
manifestazione dello Spirito è data perché
torni a comune vantaggio » (1 Cor 12,7). E
questi carismi, dai più straordinari a
quelli più semplici e più largamente
diffusi, siccome sono soprattutto adatti
alle necessità della Chiesa e destinati a
rispondervi, vanno accolti con gratitudine e
consolazione. Non bisogna però chiedere
imprudentemente i doni straordinari, né
sperare da essi con presunzione i frutti del
lavoro apostolico. Il giudizio sulla loro
genuinità e sul loro uso ordinato appartiene
a coloro che detengono l'autorità nella
Chiesa; ad essi spetta soprattutto di non
estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto
e ritenere ciò che è buono (cfr. 1 Ts 5,12 e
19-21).
L'unico popolo di Dio è universale
13. Tutti gli uomini sono chiamati a
formare il popolo di Dio. Perciò questo
popolo, pur restando uno e unico, si deve
estendere a tutto il mondo e a tutti i
secoli, affinché si adempia l'intenzione
della volontà di Dio, il quale in principio
creò la natura umana una e volle infine
radunare insieme i suoi figli dispersi (cfr.
Gv 11,52). A questo scopo Dio mandò il
Figlio suo, al quale conferì il dominio di
tutte le cose (cfr. Eb 1,2), perché fosse
maestro, re e sacerdote di tutti, capo del
nuovo e universale popolo dei figli di Dio.
Per questo infine Dio mandò lo Spirito del
Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale
per tutta la Chiesa e per tutti e singoli i
credenti è principio di associazione e di
unità, nell'insegnamento degli apostoli e
nella comunione fraterna, nella frazione del
pane e nelle preghiere (cfr. At 2,42).
In tutte quindi le nazioni della terra è
radicato un solo popolo di Dio, poiché di
mezzo a tutte le stirpi egli prende i
cittadini del suo regno non terreno ma
celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per
il mondo sono in comunione con gli altri
nello Spirito Santo, e così « chi sta in
Roma sa che gli Indi sono sue membra » [23].
Siccome dunque il regno di Cristo non è di
questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa,
cioè il popolo di Dio, introducendo questo
regno nulla sottrae al bene temporale di
qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce
e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e
le forme di vita dei popoli in ciò che esse
hanno di buono e accogliendole le purifica,
le consolida ed eleva. Essa si ricorda
infatti di dover far opera di raccolta con
quel Re, al quale sono state date in eredità
le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città
queste portano i loro doni e offerte (cfr.
Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere
di universalità, che adorna e distingue il
popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e
con esso la Chiesa cattolica efficacemente e
senza soste tende a ricapitolare tutta
l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo
capo, nell'unità dello Spirito di lui [24].
In virtù di questa cattolicità, le
singole parti portano i propri doni alle
altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che
il tutto e le singole parti si accrescono
per uno scambio mutuo universale e per uno
sforzo comune verso la pienezza nell'unità.
Ne consegue che il popolo di Dio non solo si
raccoglie da diversi popoli, ma nel suo
stesso interno si compone di funzioni
diverse. Poiché fra i suoi membri c'è
diversità sia per ufficio, essendo alcuni
impegnati nel sacro ministero per il bene
dei loro fratelli, sia per la condizione e
modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via
più stretta, sono un esempio stimolante per
i loro fratelli. Così pure esistono
legittimamente in seno alla comunione della
Chiesa, le Chiese particolari, con proprie
tradizioni, rimanendo però integro il
primato della cattedra di Pietro, la quale
presiede alla comunione universale di carità
[25],
tutela le varietà legittime e insieme veglia
affinché ciò che è particolare, non solo non
pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva.
E infine ne derivano, tra le diverse parti
della Chiesa, vincoli di intima comunione
circa i tesori spirituali, gli operai
apostolici e le risorse materiali. I membri
del popolo di Dio sono chiamati infatti a
condividere i beni e anche alle singole
Chiese si applicano le parole dell'Apostolo:
« Da bravi amministratori della multiforme
grazia di Dio, ognuno di voi metta a
servizio degli altri il dono che ha
ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a
questa cattolica unità del popolo di Dio,
che prefigura e promuove la pace universale;
a questa unità in vario modo appartengono o
sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia
gli altri credenti in Cristo, sia infine
tutti gli uomini senza eccezione, che la
grazia di Dio chiama alla salvezza.
I fedeli cattolici
14. Il santo Concilio si rivolge quindi
prima di tutto ai fedeli cattolici. Esso,
basandosi sulla sacra Scrittura e sulla
tradizione, insegna che questa Chiesa
peregrinante è necessaria alla salvezza.
Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a
noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il
mediatore e la via della salvezza; ora egli
stesso, inculcando espressamente la
necessità della fede e del battesimo (cfr.
Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la
necessità della Chiesa, nella quale gli
uomini entrano per il battesimo come per una
porta. Perciò non possono salvarsi quegli
uomini, i quali, pur non ignorando che la
Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per
mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non
vorranno entrare in essa o in essa
perseverare. Sono pienamente incorporati
nella società della Chiesa quelli che,
avendo lo Spirito di Cristo, accettano
integralmente la sua organizzazione e tutti
i mezzi di salvezza in essa istituiti, e che
inoltre, grazie ai legami costituiti dalla
professione di fede, dai sacramenti, dal
governo ecclesiastico e dalla comunione,
sono uniti, nell'assemblea visibile della
Chiesa, con il Cristo che la dirige mediante
il sommo Pontefice e i vescovi. Non si
salva, però, anche se incorporato alla
Chiesa, colui che, non perseverando nella
carità, rimane sì in seno alla Chiesa col
«corpo», ma non col «cuore» [26].
Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa
che la loro privilegiata condizione non va
ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale
grazia di Cristo; per cui, se non vi
corrispondono col pensiero, con le parole e
con le opere, non solo non si salveranno, ma
anzi saranno più severamente giudicati [27].
I catecumeni che per impulso dello
Spirito Santo desiderano ed espressamente
vogliono essere incorporati alla Chiesa,
vengono ad essa congiunti da questo stesso
desiderio, e la madre Chiesa li avvolge come
già suoi con il proprio amore e con le
proprie cure.
I cristiani non cattolici e la
Chiesa
15. La Chiesa sa di essere per più
ragioni congiunta con coloro che, essendo
battezzati, sono insigniti del nome
cristiano, ma non professano integralmente
la fede o non conservano l'unità di
comunione sotto il successore di Pietro [28].
Ci sono infatti molti che hanno in onore la
sacra Scrittura come norma di fede e di
vita, manifestano un sincero zelo religioso,
credono amorosamente in Dio Padre
onnipotente e in Cristo, figlio di Dio e
salvatore [29],
sono segnati dal battesimo, col quale
vengono congiunti con Cristo, anzi
riconoscono e accettano nelle proprie Chiese
o comunità ecclesiali anche altri
sacramenti. Molti fra loro hanno anche
l'episcopato, celebrano la sacra eucaristia
e coltivano la devozione alla vergine Madre
di Dio [30].
A questo si aggiunge la comunione di
preghiere e di altri benefici spirituali;
anzi, una certa vera unione nello Spirito
Santo, poiché anche in loro egli opera con
la sua virtù santificante per mezzo di doni
e grazie e ha dato ad alcuni la forza di
giungere fino allo spargimento del sangue.
Così lo Spirito suscita in tutti i discepoli
di Cristo desiderio e attività, affinché
tutti, nel modo da Cristo stabilito,
pacificamente si uniscano in un solo gregge
sotto un solo Pastore [31].
E per ottenere questo la madre Chiesa non
cessa di pregare, sperare e operare,
esortando i figli a purificarsi e rinnovarsi
perché l'immagine di Cristo risplenda più
chiara sul volto della Chiesa.
I non cristiani e la Chiesa
16. Infine, quanto a quelli che non hanno
ancora ricevuto il Vangelo, anch'essi in
vari modi sono ordinati al popolo di Dio [32].
In primo luogo quel popolo al quale
furono-dati i testamenti e le promesse e dal
quale Cristo è nato secondo la carne (cfr.
Rm 9,4-5), popolo molto amato in ragione
della elezione, a causa dei padri, perché i
doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili
(cfr. Rm 11,28-29). Ma il disegno di
salvezza abbraccia anche coloro che
riconoscono il Creatore, e tra questi in
particolare i musulmani, i quali,
professando di avere la fede di Abramo,
adorano con noi un Dio unico, misericordioso
che giudicherà gli uomini nel giorno finale.
Dio non e neppure lontano dagli altri che
cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le
immagini, poiché egli dà a tutti la vita e
il respiro e ogni cosa (cfr At 1,7,25-26), e
come Salvatore vuole che tutti gli uomini si
salvino (cfr. 1 Tm 2,4). Infatti, quelli che
senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e
la sua Chiesa ma che tuttavia cercano
sinceramente Dio e coll'aiuto della grazia
si sforzano di compiere con le opere la
volontà di lui, conosciuta attraverso il
dettame della coscienza, possono conseguire
la salvezza eterna [33].
Né la divina Provvidenza nega gli aiuti
necessari alla salvezza a coloro che non
sono ancora arrivati alla chiara cognizione
e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non
senza la grazia divina, di condurre una vita
retta. Poiché tutto ciò che di buono e di
vero si trova in loro è ritenuto dalla
Chiesa come una preparazione ad accogliere
il Vangelo [34]
e come dato da colui che illumina ogni uomo,
affinché abbia finalmente la vita. Ma molto
spesso gli uomini, ingannati dal maligno,
hanno errato nei loro ragionamenti e hanno
scambiato la verità divina con la menzogna,
servendo la creatura piuttosto che il
Creatore (cfr. Rm 1,21 e 25), oppure,
vivendo e morendo senza Dio in questo mondo,
sono esposti alla disperazione finale.
Perciò la Chiesa per promuovere la gloria di
Dio e la salute di tutti costoro, memore del
comando del Signore che dice: « Predicate il
Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), mette
ogni cura nell'incoraggiare e sostenere le
missioni.
Carattere missionario della Chiesa
17. Come infatti il Figlio è stato
mandato dal Padre, così ha mandato egli
stesso gli apostoli (cfr. Gv 20,21) dicendo:
«Andate dunque e ammaestrate tutte le genti,
battezzandole nel nome del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo, insegnando
loro ad osservare tutto quanto vi ho
comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i
giorni, sino alla fine del mondo » (Mt
28,18-20). E questo solenne comando di
Cristo di annunziare la verità salvifica, la
Chiesa l'ha ricevuto dagli apostoli per
proseguirne l'adempimento sino all'ultimo
confine della terra (cfr. At 1,8). Essa fa
quindi sue le parole dell'apostolo: «
Guai... a me se non predicassi! » (l Cor
9,16) e continua a mandare araldi del
Vangelo, fino a che le nuove Chiese siano
pienamente costituite e continuino a loro
volta l'opera di evangelizzazione. È spinta
infatti dallo Spirito Santo a cooperare
perché sia compiuto il piano di Dio, il
quale ha costituito Cristo principio della
salvezza per il mondo intero. Predicando il
Vangelo, la Chiesa dispone coloro che
l'ascoltano a credere e a professare la
fede, li dispone al battesimo, li toglie
dalla schiavitù dell'errore e li incorpora a
Cristo per crescere in lui mediante la
carità finché sia raggiunta la pienezza.
Procura poi che quanto di buono si trova
seminato nel cuore e nella mente degli
uomini o nei riti e culture proprie dei
popoli, non solo non vada perduto, ma sia
purificato, elevato e perfezionato a gloria
di Dio, confusione del demonio e felicità
dell'uomo. Ad ogni discepolo di Cristo
incombe il dovere di disseminare, per quanto
gli è possibile, la fede [35].
Ma se ognuno può conferire il battesimo ai
credenti, è tuttavia ufficio del sacerdote
di completare l'edificazione del corpo col
sacrificio eucaristico, adempiendo le parole
dette da Dio per mezzo del profeta: « Da
dove sorge il sole fin dove tramonta, grande
è il mio Nome tra le genti e in ogni luogo
si offre al mio Nome un sacrificio e
un'offerta pura » [36].
Così la Chiesa unisce preghiera e lavoro,
affinché il mondo intero in tutto il suo
essere sia trasformato in popolo di Dio,
corpo mistico di Cristo e tempio dello
Spirito Santo, e in Cristo, centro di tutte
le cose, sia reso ogni onore e gloria al
Creatore e Padre dell'universo.
CAPITOLO III
COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA
E IN PARTICOLARE DELL'EPISCOPATO
Proemio
18. Cristo Signore, per pascere e sempre
più accrescere il popolo di Dio, ha
stabilito nella sua Chiesa vari ministeri,
che tendono al bene di tutto il corpo. I
ministri infatti che sono rivestiti di sacra
potestà, servono i loro fratelli, perché
tutti coloro che appartengono al popolo di
Dio, e perciò hanno una vera dignità
cristiana, tendano liberamente e
ordinatamente allo stesso fine e arrivino
alla salvezza. Questo santo Sinodo,
sull'esempio del Concilio Vaticano primo,
insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore
eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha
mandato gli apostoli, come egli stesso era
stato mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e
ha voluto che i loro successori, cioè i
vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori
fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo
stesso episcopato fosse uno e indiviso,
prepose agli altri apostoli il beato Pietro
e in lui stabilì il principio e il
fondamento perpetuo e visibile dell'unità di
fede e di comunione [37].
Questa dottrina della istituzione, della
perpetuità, del valore e della natura del
sacro primato del romano Pontefice e del suo
infallibile magistero, il santo Concilio la
propone di nuovo a tutti i fedeli come
oggetto certo di fede. Di più proseguendo
nel disegno incominciato, ha stabilito di
enunciare ed esplicitare la dottrina sui
vescovi, successori degli apostoli, i quali
col successore di Pietro, vicario di Cristo
[38]
e capo visibile di tutta la Chiesa, reggono
la casa del Dio vivente.
L'istituzione dei dodici
19. Il Signore Gesù, dopo aver pregato il
Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e
ne costituì dodici perché stessero con lui e
per mandarli a predicare il regno di Dio
(cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i
suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la
forma di collegio, cioè di un gruppo
stabile, del quale mise a capo Pietro,
scelto di mezzo a loro (cfr. Gv 21 15-17).
Li mandò prima ai figli d'Israele e poi a
tutte le genti (cfr. Rm 1,16) affinché,
partecipi del suo potere, rendessero tutti i
popoli suoi discepoli, li santificassero e
governassero (cfr. Mt 28,16-20; Mc 16,15; Lc
24,45-48), diffondendo così la Chiesa e,
sotto la guida del Signore, ne fossero i
ministri e i pastori, tutti i giorni sino
alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). In
questa missione furono pienamente confermati
il giorno di Pentecoste (cfr. At 2,1-36)
secondo la promessa del Signore: «
Riceverete una forza, quella dello Spirito
Santo che discenderà su di voi, e mi sarete
testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea
e la Samaria, e sino alle estremità della
terra » (At 1,8). Gli apostoli, quindi,
predicando dovunque il Vangelo (cfr. Mc
16,20), accolto dagli uditori grazie
all'azione dello Spirito Santo, radunano la
Chiesa universale che il Signore ha fondato
su di essi e edificato sul beato Pietro,
loro capo, con Gesù Cristo stesso come
pietra maestra angolare (cfr. Ap 21,14; Mt
16,18; Ef 2,20) [39].
I vescovi, successori degli
apostoli
20. La missione divina affidata da Cristo
agli apostoli durerà fino alla fine dei
secoli (cfr. Mt 28,20), poiché il Vangelo
che essi devono predicare è per la Chiesa il
principio di tutta la sua vita in ogni
tempo. Per questo gli apostoli, in questa
società gerarchicamente ordinata, ebbero
cura di istituire dei successori.
Infatti, non solo ebbero vari
collaboratori nel ministero [40]
ma perché la missione loro affidata venisse
continuata dopo la loro morte, affidarono,
quasi per testamento, ai loro immediati
cooperatori l'ufficio di completare e
consolidare l'opera da essi incominciata [41]
raccomandando loro di attendere a tutto il
gregge nel quale lo Spirito Santo li aveva
posti a pascere la Chiesa di Dio (cfr. At
20,28). Perciò si scelsero di questi uomini
e in seguito diedero disposizione che dopo
la loro morte altri uomini subentrassero al
loro posto [42].
Fra i vari ministeri che fin dai primi tempi
si esercitano nella Chiesa, secondo la
testimonianza della tradizione, tiene il
primo posto l'ufficio di quelli che
costituiti nell'episcopato, per successione
che decorre ininterrotta fin dalle origini [43]
sono i sacramenti attraverso i quali si
trasmette il seme apostolico [44]
. Così, come attesta S. Ireneo, per mezzo di
coloro che gli apostoli costituirono vescovi
e dei loro successori fino a noi, la
tradizione apostolica in tutto il mondo è
manifestata [45]
e custodita [46].
I vescovi dunque hanno ricevuto il
ministero della comunità per esercitarlo con
i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi [47].
Presiedono in luogo di Dio al gregge [48]
di cui sono pastori quali maestri di
dottrina, sacerdoti del sacro culto,
ministri del governo della Chiesa [49].
Come quindi è permanente l'ufficio dal
Signore concesso singolarmente a Pietro, il
primo degli apostoli, e da trasmettersi ai
suoi successori, cosi è permanente l'ufficio
degli apostoli di pascere la Chiesa, da
esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei
Vescovi [50].
Perciò il sacro Concilio insegna che i
vescovi per divina istituzione sono
succeduti al posto degli Apostoli [51]
quali pastori della Chiesa, e che chi li
ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza,
disprezza Cristo e colui che ha mandato
Cristo (cfr. Lc 10,16) [52].
Sacramentalità dell'episcopato
21. Nella persona quindi dei vescovi,
assistiti dai sacerdoti, è presente in mezzo
ai credenti il Signore Gesù Cristo,
pontefice sommo. Pur sedendo infatti alla
destra di Dio Padre, egli non cessa di
essere presente alla comunità dei suoi
pontefici [53]
in primo luogo, per mezzo dell'eccelso loro
ministero, predica la parola di Dio a tutte
le genti e continuamente amministra ai
credenti i sacramenti della fede; per mezzo
del loro ufficio paterno (cfr. 1 Cor 4,15)
integra nuove membra al suo corpo con la
rigenerazione soprannaturale; e infine, con
la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina
il popolo del Nuovo Testamento nella sua
peregrinazione verso l'eterna beatitudine.
Questi pastori, scelti a pascere il gregge
del Signore, sono ministri di Cristo e
dispensatori dei misteri di Dio (cfr. 1 Cor
4,1). Ad essi è stata affidata la
testimonianza al Vangelo della grazia di Dio
(cfr. Rm 15,16; At 20,24) e il glorioso
ministero dello Spirito e della giustizia
(cfr. 2 Cor 3,8-9).
Per compiere cosi grandi uffici, gli
apostoli sono stati arricchiti da Cristo con
una effusione speciale dello Spirito Santo
disceso su loro (cfr. At 1,8; 2,4; Gv
20,22-23), ed essi stessi con la imposizione
delle mani diedero questo dono spirituale ai
loro collaboratori (cfr. 1 Tm 4,14; 2 Tm
1,6-7), dono che è stato trasmesso fino a
noi nella consacrazione Episcopale [54].
Il santo Concilio insegna quindi che con la
consacrazione episcopale viene conferita la
pienezza del sacramento dell'ordine, quella
cioè che dalla consuetudine liturgica della
Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene
chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del
sacro ministero [55].
La consacrazione episcopale conferisce pure,
con l'ufficio di santificare, gli uffici di
insegnare e governare; questi però, per loro
natura, non possono essere esercitati se non
nella comunione gerarchica col capo e con le
membra del collegio. Dalla tradizione
infatti, quale risulta specialmente dai riti
liturgici e dall'uso della Chiesa sia
d'Oriente che d'Occidente, consta
chiaramente che dall'imposizione delle mani
e dalle parole della consacrazione è
conferita la grazia dello Spirito Santo [56]
ed è impresso il sacro carattere [57]
in maniera tale che i vescovi, in modo
eminente e visibile, tengono il posto dello
stesso Cristo maestro, pastore e pontefice,
e agiscono in sua vece [58].
È proprio dei vescovi assumere col
sacramento dell'ordine nuovi eletti nel
corpo episcopale.
Il collegio dei vescovi e il suo
capo
22. Come san Pietro e gli altri apostoli
costituiscono, per volontà del Signore, un
unico collegio apostolico, similmente il
romano Pontefice, successore di Pietro, e i
vescovi, successori degli apostoli, sono
uniti tra loro. Già l'antichissima
disciplina, in virtù della quale i vescovi
di tutto il mondo vivevano in comunione tra
loro e col vescovo di Roma nel vincolo
dell'unità, della carità e della pace [59]
e parimenti la convocazione dei Concili [60]
per decidere in comune di tutte le questioni
più importanti [61]
mediante una decisione che l'opinione
dell'insieme [62]
permetteva di equilibrare significano il
carattere e la natura collegiale dell'ordine
episcopale, che risulta manifestamente
confermata dal fatto dei Concili ecumenici
tenuti lungo i secoli. La stessa è pure
suggerita dall'antico uso di convocare più
vescovi per partecipare all elevazione del
nuovo eletto al ministero del sommo
sacerdozio. Uno è costituito membro del
corpo episcopale in virtù della
consacrazione sacramentale e mediante la
comunione gerarchica col capo del collegio e
con le sue membra.
Il collegio o corpo episcopale non ha
però autorità, se non lo si concepisce unito
al Pontefice romano, successore di Pietro,
quale suo capo, e senza pregiudizio per la
sua potestà di primato su tutti, sia pastori
che fedeli. Infatti il romano Pontefice, in
forza tutta la Chiesa, ha su questa una
potestà piena, suprema e universale, che può
sempre esercitare liberamente. D'altra
parte, l'ordine dei vescovi, il quale
succede al collegio degli apostoli nel
magistero e nel governo pastorale, anzi, nel
quale si perpetua il corpo apostolico, è
anch'esso insieme col suo capo il romano
Pontefice, e mai senza questo capo, il
soggetto di una suprema e piena potestà su
tutta la Chiesa [63]
sebbene tale potestà non possa essere
esercitata se non col consenso del romano
Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone
come pietra e clavigero della Chiesa (cfr.
Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di
tutto il suo gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma
l'ufficio di legare e di sciogliere, che è
stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto
essere stato pure concesso al collegio degli
apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt
18,18; 28,16-20) [64].
Questo collegio, in quanto composto da
molti, esprime la varietà e l'universalità
del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto
sotto un solo capo, significa l'unità del
gregge di Cristo. In esso i vescovi,
rispettando fedelmente il primato e la
preminenza del loro capo, esercitano la
propria potestà per il bene dei loro fedeli,
anzi di tutta la Chiesa, mente lo Spirito
Santo costantemente consolida la sua
struttura organica e la sua concordia. La
suprema potestà che questo collegio possiede
su tutta la Chiesa, è esercitata in modo
solenne nel Concilio ecumenico. Mai può
esserci Concilio ecumenico, che come tale
non sia confermato o almeno accettato dal
successore di Pietro; ed è prerogativa del
romano Pontefice convocare questi Concili,
presiederli e confermarli [65].
La stessa potestà collegiale insieme col
papa può essere esercitata dai vescovi
sparsi per il mondo, purché il capo del
collegio li chiami ad agire collegialmente,
o almeno approvi o liberamente accetti
l'azione congiunta dei vescovi dispersi,
così da risultare un vero atto collegiale.
Le relazioni all'interno del
collegio episcopale
23. L'unità collegiale appare anche nelle
mutue relazioni dei singoli vescovi con
Chiese particolari e con la Chiesa
universale. Il romano Pontefice, quale
successore di Pietro, è il perpetuo e
visibile principio e fondamento dell'unità
sia dei vescovi sia della moltitudine dei
fedeli [66].
I singoli vescovi, invece, sono il visibile
principio e fondamento di unità nelle loro
Chiese particolari [67]
queste sono formate ad immagine della Chiesa
universale, ed è in esse e a partire da esse
che esiste la Chiesa cattolica una e unica [68].
Perciò i singoli vescovi rappresentano la
propria Chiesa, e tutti insieme col Papa
rappresentano la Chiesa universale in un
vincolo di pace, di amore e di unità. I
singoli vescovi, che sono preposti a Chiese
particolari, esercitano il loro pastorale
governo sopra la porzione del popolo di Dio
che è stata loro affidata, non sopra le
altre Chiese né sopra la Chiesa universale.
Ma in quanto membri del collegio episcopale
e legittimi successori degli apostoli, per
istituzione e precetto di Cristo sono tenuti
ad avere per tutta la Chiesa [69]
una sollecitudine che, sebbene non sia
esercitata con atti di giurisdizione,
contribuisce sommamente al bene della Chiesa
universale. Tutti i vescovi, infatti, devono
promuovere e difendere l'unità della fede e
la disciplina comune all'insieme della
Chiesa, formare i fedeli all'amore per tutto
il corpo mistico di Cristo, specialmente
delle membra povere, sofferenti e di quelle
che sono perseguitate a causa della
giustizia (cfr. Mt 5,10), e infine
promuovere ogni attività comune alla Chiesa,
specialmente nel procurare che la fede
cresca e sorga per tutti gli uomini la luce
della piena verità. Del resto è certo che,
reggendo bene la propria Chiesa come una
porzione della Chiesa universale,
contribuiscono essi stessi efficacemente al
bene di tutto il corpo mistico, che è pure
il corpo delle Chiese [70].
La cura di annunziare il Vangelo in ogni
parte della terra appartiene al corpo dei
pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo
diede il mandato, imponendo un comune
dovere, come già papa Celestino ricordava ai
Padri del Concilio Efesino [71].
Quindi i singoli vescovi, per quanto lo
permette l'esercizio del particolare loro
dovere, sono tenuti a collaborare tra di
loro e col successore di Pietro, al quale in
modo speciale fu affidato l'altissimo
ufficio di propagare il nome cristiano [72].
Con tutte le forze devono fornire alle
missioni non solo gli operai della messe, ma
anche aiuti spirituali e materiali, sia da
sé direttamente, sia suscitando la fervida
cooperazione dei fedeli. I vescovi, infine,
in universale comunione di carità, offrano
volentieri il loro fraterno aiuto alle altre
Chiese, specialmente alle più vicine e più
povere, seguendo in questo il venerando
esempio dell'antica Chiesa.
Per divina Provvidenza è avvenuto che
varie Chiese, in vari luoghi stabilite dagli
apostoli e dai loro successori, durante i
secoli si sono costituite in vari
raggruppamenti, organicamente congiunti, i
quali, salva restando l'unità della fede e
l'unica costituzione divina della Chiesa
universale, godono di una propria
disciplina, di un proprio uso liturgico, di
un proprio patrimonio teologico e
spirituale. Alcune fra esse, soprattutto le
antiche Chiese patriarcali, quasi matrici
della fede, ne hanno generate altre a modo
di figlie, colle quali restano fino ai
nostri tempi legate da un più stretto
vincolo di carità nella vita sacramentale e
nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri
[73].
Questa varietà di Chiese locali tendenti
all'unità dimostra con maggiore evidenza la
cattolicità della Chiesa indivisa. In modo
simile le Conferenze episcopali possono oggi
portare un molteplice e fecondo contributo
acciocché il senso di collegialità si
realizzi concretamente.
Il ministero episcopale
24. I vescovi, quali successori degli
apostoli, ricevono dal Signore, cui è data
ogni potestà in cielo e in terra, la
missione d'insegnare a tutte le genti e di
predicare il Vangelo ad ogni creatura,
affinché tutti gli uomini, per mezzo della
fede, del battesimo e dell'osservanza dei
comandamenti, ottengano la salvezza (cfr. Mt
28,18-20; Mc 16,15-16; At 26,17 ss). Per
compiere questa missione, Cristo Signore
promise agli apostoli lo Spirito Santo e il
giorno di Pentecoste lo mandò dal cielo,
perché con la sua forza essi gli fossero
testimoni fino alla estremità della terra,
davanti alle nazioni e ai popoli e ai re
(cfr. At 1,8; 2,1 ss; 9,15). L'ufficio poi
che il Signore affidò ai pastori del suo
popolo, è un vero servizio, che nella sacra
Scrittura è chiamato significativamente «
diaconia », cioè ministero (cfr. At 1,17 e
25; 21,19; Rm 11,13; 1 Tm 1,12).
La missione canonica dei vescovi può
essere data per mezzo delle legittime
consuetudini, non revocate dalla suprema e
universale potestà della Chiesa, o per mezzo
delle leggi fatte dalla stessa autorità o da
essa riconosciute, oppure direttamente dallo
stesso successore di Pietro; se questi
rifiuta o nega la comunione apostolica, i
vescovi non possono essere assunti
all'ufficio [74].
La funzione d'insegnamento dei
vescovi
25. Tra i principali doveri dei vescovi
eccelle la predicazione del Vangelo [75].
I vescovi, infatti, sono gli araldi della
fede che portano a Cristo nuovi discepoli;
sono dottori autentici, cioè rivestiti
dell'autorità di Cristo, che predicano al
popolo loro affidato la fede da credere e da
applicare nella pratica della vita, la
illustrano alla luce dello Spirito Santo,
traendo fuori dal tesoro della Rivelazione
cose nuove e vecchie (cfr. Mt 13,52), la
fanno fruttificare e vegliano per tenere
lontano dal loro gregge gli errori che lo
minacciano (cfr. 2 Tm 4,1-4) . I vescovi che
insegnano in comunione col romano Pontefice
devono essere da tutti ascoltati con
venerazione quali testimoni della divina e
cattolica verità; e i fedeli devono
accettare il giudizio dal loro vescovo dato
a nome di Cristo in cose di fede e morale, e
dargli l'assenso religioso del loro spirito.
Ma questo assenso religioso della volontà e
della intelligenza lo si deve in modo
particolare prestare al magistero autentico
del romano Pontefice, anche quando non parla
« ex cathedra ». Ciò implica che il suo
supremo magistero sia accettato con
riverenza, e che con sincerità si aderisca
alle sue affermazioni in conformità al
pensiero e in conformità alla volontà di lui
manifestatasi che si possono dedurre in
particolare dal carattere dei documenti, o
dall'insistenza nel proporre una certa
dottrina, o dalla maniera di esprimersi.
Quantunque i vescovi, presi a uno a uno,
non godano della prerogativa
dell'infallibilità, quando tuttavia, anche
dispersi per il mondo, ma conservando il
vincolo della comunione tra di loro e col
successore di Pietro, si accordano per
insegnare autenticamente che una dottrina
concernente la fede e i costumi si impone in
maniera assoluta, allora esprimono
infallibilmente la dottrina di Cristo [76].
La cosa è ancora più manifesta quando,
radunati in Concilio ecumenico, sono per
tutta la Chiesa dottori e giudici della fede
e della morale; allora bisogna aderire alle
loro definizioni con l'ossequio della fede [77].
Questa infallibilità, della quale il
divino Redentore volle provveduta la sua
Chiesa nel definire la dottrina della fede e
della morale, si estende tanto, quanto il
deposito della divina Rivelazione, che deve
essere gelosamente custodito e fedelmente
esposto. Di questa infallibilità il romano
Pontefice, capo del collegio dei vescovi,
fruisce in virtù del suo ufficio, quando,
quale supremo pastore e dottore di tutti i
fedeli che conferma nella fede i suoi
fratelli (cfr. Lc 22,32), sancisce con atto
definitivo una dottrina riguardante la fede
e la morale [78].
Perciò le sue definizioni giustamente sono
dette irreformabili per se stesse e non in
virtù del consenso della Chiesa, essendo
esse pronunziate con l'assistenza dello
Spirito Santo a lui promessa nella persona
di san Pietro, per cui non hanno bisogno di
una approvazione di altri, né ammettono
appello alcuno ad altro giudizio. In effetti
allora il romano Pontefice pronunzia
sentenza non come persona privata, ma espone
o difende la dottrina della fede cattolica
quale supremo maestro della Chiesa
universale, singolarmente insignito del
carisma dell'infallibilità della Chiesa
stessa [79].
L'infallibilità promessa alla Chiesa risiede
pure nel corpo episcopale quando esercita il
supremo magistero col successore di Pietro.
A queste definizioni non può mai mancare
l'assenso della Chiesa, data l'azione dello
stesso Spirito Santo che conserva e fa
progredire nell'unità della fede tutto il
gregge di Cristo [80].
Quando poi il romano Pontefice o il corpo
dei vescovi con lui esprimono una sentenza,
la emettono secondo la stessa Rivelazione,
cui tutti devono attenersi e conformarsi,
Rivelazione che è integralmente trasmessa
per scritto o per tradizione dalla legittima
successione dei vescovi e specialmente a
cura dello stesso Pontefice romano, e viene
nella Chiesa gelosamente conservata e
fedelmente esposta sotto la luce dello
Spirito di verità [81].
Perché poi sia debitamente indagata ed
enunziata in modo adatto [82],
il romano Pontefice e i vescovi nella
coscienza del loro ufficio e della gravità
della cosa, prestano la loro vigile opera
usando i mezzi convenienti però non ricevono
alcuna nuova rivelazione pubblica come
appartenente al deposito divino della fede [83].
La funzione di santificazione
26. Il vescovo, insignito della pienezza
del sacramento dell'ordine, è « l'economo
della grazia del supremo sacerdozio» [84]
specialmente nell'eucaristia, che offre egli
stesso o fa offrire [85]
e della quale la Chiesa continuamente vive e
cresce. Questa Chiesa di Cristo è veramente
presente nelle legittime comunità locali di
fedeli, le quali, unite ai loro pastori,
sono anch'esse chiamate Chiese nel Nuovo
Testamento [86].
Esse infatti sono, ciascuna nel proprio
territorio, il popolo nuovo chiamato da Dio
nello Spirito Santo e in una grande fiducia
(cfr. 1 Ts 1,5). In esse con la predicazione
del Vangelo di Cristo vengono radunati i
fedeli e si celebra il mistero della Cena
del Signore, « affinché per mezzo della
carne e del sangue del Signore siano
strettamente uniti tutti i fratelli della
comunità» [87].
In ogni comunità che partecipa all'altare,
sotto la sacra presidenza del Vescovo [88]
viene offerto il simbolo di quella carità e
« unità del corpo mistico, senza la quale
non può esserci salvezza» [89].
In queste comunità, sebbene spesso piccole e
povere e disperse, è presente Cristo, per
virtù del quale si costituisce la Chiesa
una, santa, cattolica e apostolica [90].
Infatti « la partecipazione del corpo e del
sangue di Cristo altro non fa, se non che ci
mutiamo in ciò che riceviamo » [91].
Ogni legittima celebrazione
dell'eucaristia è diretta dal vescovo, al
quale è demandato il compito di prestare e
regolare il culto della religione cristiana
alla divina Maestà, secondo i precetti del
Signore e le leggi della Chiesa, dal suo
particolare giudizio ulteriormente
determinante per la propria diocesi. In
questo modo i vescovi, con la preghiera e il
lavoro per il popolo, in varie forme
effondono abbondantemente la pienezza della
santità di Cristo. Col ministero della
parola comunicano la forza di Dio per la
salvezza dei credenti (cfr. Rm 1,16), e con
i sacramenti, dei quali con la loro autorità
organizzano la regolare e fruttuosa
distribuzione santificano i fedeli [92].
Regolano l'amministrazione del battesimo,
col quale è concesso partecipare al regale
sacerdozio di Cristo. Sono i ministri
originari della confermazione, dispensatori
degli ordini sacri e moderatori della
disciplina penitenziale, e con sollecitudine
esortano e istruiscono le loro popolazioni,
affinché nella liturgia e specialmente nel
santo sacrificio della messa compiano la
loro parte con fede e devozione. Devono,
infine, coll'esempio della loro vita aiutare
quelli a cui presiedono, serbando i loro
costumi immuni da ogni male, e per quanto
possono, con l'aiuto di Dio mutandoli in
bene, onde possano, insieme col gregge loro
affidato, giungere alla vita eterna [93].
La funzione di governo
27. I vescovi reggono le Chiese
particolari a loro affidate come vicari e
legati di Cristo [94],
col consiglio, la persuasione, l'esempio, ma
anche con l'autorità e la sacra potestà,
della quale però non si servono se non per
edificare il proprio gregge nella verità e
nella santità, ricordandosi che chi è più
grande si deve fare come il più piccolo, e
chi è il capo, come chi serve (cfr. Lc
22,26-27). Questa potestà, che personalmente
esercitano in nome di Cristo, è propria,
ordinaria e immediata, quantunque il suo
esercizio sia in ultima istanza sottoposto
alla suprema autorità della Chiesa e, entro
certi limiti, in vista dell'utilità della
Chiesa o dei fedeli, possa essere ristretto.
In virtù di questa potestà i vescovi hanno
il sacro diritto e davanti al Signore il
dovere di dare leggi ai loro sudditi, di
giudicare e di regolare tutto quanto
appartiene al culto e all'apostolato.
Ad essi è pienamente affidato l'ufficio
pastorale ossia l'abituale e quotidiana cura
del loro gregge; né devono essere
considerati vicari dei romani Pontefici,
perché sono rivestiti di autorità propria e
con tutta verità sono detti « sovrintendenti
delle popolazioni » che governano [95].
La loro potestà quindi non è annullata dalla
potestà suprema e universale [96],
ma anzi è da essa affermata, corroborata e
rivendicata, poiché è lo Spirito Santo che
conserva invariata la forma di governo da
Cristo Signore stabilita nella sua Chiesa.
Il vescovo, mandato dal padre di famiglia
a governare la sua famiglia, tenga innanzi
agli occhi l'esempio del buon Pastore, che è
venuto non per essere servito ma per servire
(cfr. Mt 20,28; Mc 10,45) e dare la sua vita
per le pecore (cfr. Gv 10,11). Preso di
mezzo agli uomini e soggetto a debolezza,
può benignamente compatire gli ignoranti o
gli sviati (cfr. Eb 5,1-2). Non rifugga
dall'ascoltare quelli che dipendono da lui,
curandoli come veri figli suoi ed
esortandoli a cooperare alacremente con lui.
Dovendo render conto a Dio delle loro anime
(cfr. Eb 13,17), abbia cura di loro con la
preghiera, la predicazione e ogni opera di
carità; la sua sollecitudine si estenda
anche a quelli che non fanno ancor parte
dell'unico gregge e li consideri come
affidatigli dal Signore. Essendo egli, come
l'apostolo Paolo, debitore a tutti, sia
pronto ad annunziare il Vangelo a tutti
(cfr. Rm 1,14-15) e ad esortare i suoi
fedeli all'attività apostolica e
missionaria. I fedeli poi devono aderire al
vescovo come la Chiesa a Gesù Cristo e come
Gesù Cristo al Padre, affinché tutte le cose
siano concordi e unite [97]
e siano feconde per la gloria di Dio (cfr. 2
Cor 4,15).
I sacerdoti e i loro rapporti con
Cristo, con i vescovi, con i confratelli e
con il popolo cristiano
28. Cristo, santificato e mandato nel
mondo dal Padre (cfr. Gv 10,36), per mezzo
degli apostoli ha reso partecipi della sua
consacrazione e della sua missione i loro
successori, cioè i vescovi a loro volta i
vescovi [98]
hanno legittimamente affidato a vari membri
della Chiesa, in vario grado, l'ufficio del
loro ministero. Così il ministero
ecclesiastico di istituzione divina viene
esercitato in diversi ordini, da quelli che
già anticamente sono chiamati vescovi,
presbiteri, diaconi [99].
I presbiteri, pur non possedendo l'apice del
sacerdozio e dipendendo dai vescovi
nell'esercizio della loro potestà, sono
tuttavia a loro congiunti nella dignità
sacerdotale [100]
e in virtù del sacramento dell'ordine [101]
ad immagine di Cristo, sommo ed eterno
sacerdote (cfr. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28),
sono consacrati per predicare il Vangelo,
essere i pastori fedeli e celebrare il culto
divino [102],
quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento.
Partecipi, nel loro grado di ministero,
dell'ufficio dell'unico mediatore, che è il
Cristo (cfr. 1 Tm 2,5) annunziano a tutti la
parola di Dio. Esercitano il loro sacro
ministero soprattutto nel culto eucaristico
o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo
[103]
e proclamando il suo mistero, uniscono le
preghiere dei fedeli al sacrificio del loro
capo e nel sacrificio della messa rendono
presente e applicano fino alla venuta del
Signore (cfr. 1 Cor 11,26), l'unico
sacrificio del Nuovo Testamento, quello cioè
di Cristo, il quale una volta per tutte
offrì se stesso al Padre quale vittima
immacolata (cfr. Eb 9,11-28) [104].
Esercitano inoltre il ministero della
riconciliazione e del conforto a favore dei
fedeli penitenti o ammalati e portano a Dio
Padre le necessità e le preghiere dei fedeli
(cfr. Eb 5,1-4). Esercitando, secondo la
loro parte di autorità, l'ufficio di Cristo,
pastore e capo [105],
raccolgono la famiglia di Dio, quale insieme
di fratelli animati da un solo spirito, per
mezzo di Cristo nello Spirito [106]
li portano al Padre e in mezzo al loro
gregge lo adorano in spirito e verità (cfr.
Gv 4,24). Si affaticano inoltre nella
predicazione e nell'insegnamento (cfr. 1 Tm
5,17), credendo ciò che hanno letto e
meditato nella legge del Signore, insegnando
ciò che credono, vivendo ciò che insegnano [107].
I sacerdoti, saggi collaboratori
dell'ordine Episcopale [108]
e suo aiuto e strumento, chiamati a servire
il popolo di Dio, costituiscono col loro
vescovo un solo presbiterio [109]
sebbene destinato a uffici diversi. Nelle
singole comunità locali di fedeli rendono in
certo modo presente il vescovo, cui sono
uniti con cuore confidente e generoso, ne
assumono secondo il loro grado, gli uffici e
la sollecitudine e li esercitano con
dedizione quotidiana. Essi, sotto l'autorità
del vescovo, santificano e governano la
porzione di gregge del Signore loro
affidata, nella loro sede rendono visibile
la Chiesa universale e portano un grande
contributo all'edificazione di tutto il
corpo mistico di Cristo (cfr. Ef 4,12).
Sempre intenti al bene dei figli di Dio,
devono mettere il loro zelo nel contribuire
al lavoro pastorale di tutta la diocesi,
anzi di tutta la Chiesa. In ragione di
questa loro partecipazione nel sacerdozio e
nel lavoro apostolico del vescovo, i
sacerdoti riconoscano in lui il loro padre e
gli obbediscano con rispettoso amore. Il
vescovo, poi, consideri i sacerdoti, i suoi
cooperatori, come figli e amici così come il
Cristo chiama i suoi discepoli non servi, ma
amici (cfr. Gv 15,15). Per ragione quindi
dell'ordine e del ministero, tutti i
sacerdoti sia diocesani che religiosi, sono
associati al corpo episcopale e, secondo la
loro vocazione e grazia, servono al bene di
tutta la Chiesa.
In virtù della comunità di ordinazione e
missione tutti i sacerdoti sono fra loro
legati da un'intima fraternità, che deve
spontaneamente e volentieri manifestarsi nel
mutuo aiuto, spirituale e materiale,
pastorale e personale, nelle riunioni e
nella comunione di vita, di lavoro e di
carità.
Abbiano poi cura, come padri in Cristo,
dei fedeli che hanno spiritualmente generato
col battesimo e l'insegnamento (cfr. 1 Cor
4,15; 1 Pt 1,23). Divenuti spontaneamente
modelli del gregge (cfr. 1 Pt 5,3)
presiedano e servano la loro comunità
locale, in modo che questa possa degnamente
esser chiamata col nome di cui è insignito
l'unico popolo di Dio nella sua totalità,
cioè Chiesa di Dio (cfr. 1 Cor 1,2; 2 Cor
1,1). Si ricordino che devono, con la loro
quotidiana condotta e con la loro
sollecitudine, presentare ai fedeli e
infedeli, cattolici e non cattolici,
l'immagine di un ministero veramente
sacerdotale e pastorale, e rendere a tutti
la testimonianza della verità e della vita;
e come buoni pastori ricercare anche quelli
(cfr. Lc 15,4-7) che, sebbene battezzati
nella Chiesa cattolica, hanno abbandonato la
pratica dei sacramenti o persino la fede.
Siccome oggigiorno l'umanità va sempre
più organizzandosi in una unità civile,
economica e sociale, tanto più bisogna che i
sacerdoti, consociando il loro zelo e il
loro lavoro sotto la guida dei vescovi e del
sommo Pontefice, eliminino ogni causa di
dispersione, affinché tutto il genere umano
sia ricondotto all'unità della famiglia di
Dio.
I diaconi
29. In un grado inferiore della gerarchia
stanno i diaconi, ai quali sono imposte le
mani « non per il sacerdozio, ma per il
servizio » [110].
Infatti, sostenuti dalla grazia
sacramentale, nella « diaconia » della
liturgia, della predicazione e della carità
servono il popolo di Dio, in comunione col
vescovo e con il suo presbiterio. È ufficio
del diacono, secondo le disposizioni della
competente autorità, amministrare
solennemente il battesimo, conservare e
distribuire l'eucaristia, assistere e
benedire il matrimonio in nome della Chiesa,
portare il viatico ai moribondi, leggere la
sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed
esortare il popolo, presiedere al culto e
alla preghiera dei fedeli, amministrare i
sacramentali, presiedere al rito funebre e
alla sepoltura. Essendo dedicati agli uffici
di carità e di assistenza, i diaconi si
ricordino del monito di S. Policarpo: «
Essere misericordiosi, attivi, camminare
secondo la verità del Signore, il quale si è
fatto servo di tutti » [111].
E siccome questi uffici, sommamente
necessari alla vita della Chiesa, nella
disciplina oggi vigente della Chiesa latina
in molte regioni difficilmente possono
essere esercitati, il diaconato potrà in
futuro essere ristabilito come proprio e
permanente grado della gerarchia. Spetterà
poi alla competenza dei raggruppamenti
territoriali dei vescovi, nelle loro diverse
forme, di decidere, con l'approvazione dello
stesso sommo Pontefice, se e dove sia
opportuno che tali diaconi siano istituiti
per la cura delle anime. Col consenso del
romano Pontefice questo diaconato potrà
essere conferito a uomini di età matura
anche viventi nel matrimonio, e così pure a
dei giovani idonei, per i quali però deve
rimanere ferma la legge del celibato.
CAPITOLO IVI LAICI
I laici nella Chiesa
30. Il santo Concilio, dopo aver
illustrati gli uffici della gerarchia, con
piacere rivolge il pensiero allo stato di
quei fedeli che si chiamano laici. Sebbene
quanto fu detto del popolo di Dio sia
ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e
al clero, ai laici tuttavia, sia uomini che
donne, per la loro condizione e missione,
appartengono in particolare alcune cose, i
fondamenti delle quali, a motivo delle
speciali circostanze del nostro tempo,
devono essere più accuratamente ponderati. I
sacri pastori, infatti, sanno benissimo
quanto i laici contribuiscano al bene di
tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati
istituiti da Cristo per assumersi da soli
tutto il peso della missione salvifica della
Chiesa verso il mondo, ma che il loro
eccelso ufficio consiste nel comprendere la
loro missione di pastori nei confronti dei
fedeli e nel riconoscere i ministeri e i
carismi propri a questi, in maniera tale che
tutti concordemente cooperino, nella loro
misura, al bene comune. Bisogna infatti che
tutti « mediante la pratica di una carità
sincera, cresciamo in ogni modo verso colui
che è il capo, Cristo; da lui tutto il
corpo, ben connesso e solidamente collegato,
attraverso tutte le giunture di
comunicazione, secondo l'attività
proporzionata a ciascun membro, opera il suo
accrescimento e si va edificando nella
carità» (Ef 4,15-16).
Natura e missione dei laici
31. Col nome di laici si intende qui
l'insieme dei cristiani ad esclusione dei
membri dell'ordine sacro e dello stato
religioso sancito nella Chiesa, i fedeli
cioè, che, dopo essere stati incorporati a
Cristo col battesimo e costituiti popolo di
Dio e, nella loro misura, resi partecipi
dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale
di Cristo, per la loro parte compiono, nella
Chiesa e nel mondo, la missione propria di
tutto il popolo cristiano.
Il carattere secolare è proprio e
peculiare dei laici. Infatti, i membri
dell'ordine sacro, sebbene talora possano
essere impegnati nelle cose del secolo,
anche esercitando una professione secolare,
tuttavia per la loro speciale vocazione sono
destinati principalmente e propriamente al
sacro ministero, mentre i religiosi col loro
stato testimoniano in modo splendido ed
esimio che il mondo non può essere
trasfigurato e offerto a Dio senza lo
spirito delle beatitudini. Per loro
vocazione è proprio dei laici cercare il
regno di Dio trattando le cose temporali e
ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo,
cioè implicati in tutti i diversi doveri e
lavori del mondo e nelle ordinarie
condizioni della vita familiare e sociale,
di cui la loro esistenza è come intessuta.
Ivi sono da Dio chiamati a contribuire,
quasi dall'interno a modo di fermento, alla
santificazione del mondo esercitando il
proprio ufficio sotto la guida dello spirito
evangelico, e in questo modo a manifestare
Cristo agli altri principalmente con la
testimonianza della loro stessa vita e col
fulgore della loro fede, della loro speranza
e carità. A loro quindi particolarmente
spetta di illuminare e ordinare tutte le
cose temporali, alle quali sono strettamente
legati, in modo che siano fatte e crescano
costantemente secondo il Cristo e siano di
lode al Creatore e Redentore.
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La santa Chiesa è, per divina
istituzione, organizzata e diretta con
mirabile varietà. «A quel modo, infatti, che
in uno- stesso corpo abbiamo molte membra, e
le membra non hanno tutte le stessa
funzione, così tutti insieme formiamo un
solo corpo in Cristo, e individualmente
siano membri gli uni degli altri » (Rm
12,4-5).
Non c'è quindi che un popolo di Dio
scelto da lui: « un solo Signore, una sola
fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è
la dignità dei membri per la loro
rigenerazione in Cristo, comune la grazia di
adozione filiale, comune la vocazione alla
perfezione; non c'è che una sola salvezza,
una sola speranza e una carità senza
divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in
Cristo e nella Chiesa per riguardo alla
stirpe o nazione, alla condizione sociale o
al sesso, poiché « non c'è né Giudeo né
Gentile, non c'è né schiavo né libero, non
c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in
Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).
Se quindi nella Chiesa non tutti
camminano per la stessa via, tutti però sono
chiamati alla santità e hanno ricevuto a
titolo uguale la fede che introduce nella
giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque
alcuni per volontà di Cristo siano
costituiti dottori, dispensatori dei misteri
e pastori per gli altri, tuttavia vige fra
tutti una vera uguaglianza riguardo alla
dignità e all'azione comune a tutti i fedeli
nell'edificare il corpo di Cristo. La
distinzione infatti posta dal Signore tra i
sacri ministri e il resto del popolo di Dio
comporta in sé unione, essendo i pastori e
gli altri fedeli legati tra di loro da una
comunità di rapporto: che i pastori della
Chiesa sull'esempio di Cristo sono a
servizio gli uni degli altri e a servizio
degli altri fedeli, e questi a loro volta
prestano volenterosi la loro collaborazione
ai pastori e ai maestri. Così, nella
diversità stessa, tutti danno testimonianza
della mirabile unità nel corpo di Cristo:
poiché la stessa diversità di grazie, di
ministeri e di operazioni raccoglie in un
tutto i figli di Dio, dato che « tutte
queste cose opera... un unico e medesimo
Spirito» (1 Cor 12,11).
I laici quindi, come per benevolenza
divina hanno per fratello Cristo, il quale,
pur essendo Signore di tutte le cose, non è
venuto per essere servito, ma per servire
(cfr. Mt 20,28), così anche hanno per
fratelli coloro che, posti nel sacro
ministero, insegnando e santificando e
reggendo per autorità di Cristo, svolgono
presso la famiglia di Dio l'ufficio di
pastori, in modo che sia da tutti adempito
il nuovo precetto della carità. A questo
proposito dice molto bene sant'Agostino: «
Se mi spaventa l'essere per voi, mi
rassicura l'essere con voi. Perché per voi
sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello
è nome di ufficio, questo di grazia; quello
è nome di pericolo, questo di salvezza » [112].
L'apostolato dei laici
33. I laici, radunati nel popolo di Dio e
costituiti nell'unico corpo di Cristo sotto
un solo capo, sono chiamati chiunque essi
siano, a contribuire come membra vive, con
tutte le forze ricevute dalla bontà del
Creatore e dalla grazia del Redentore,
all'incremento della Chiesa e alla sua
santificazione permanente.
L'apostolato dei laici è quindi
partecipazione alla missione salvifica
stessa della Chiesa; a questo apostolato
sono tutti destinati dal Signore stesso per
mezzo del battesimo e della confermazione.
Dai sacramenti poi, e specialmente dalla
sacra eucaristia, viene comunicata e
alimentata quella carità verso Dio e gli
uomini che è l'anima di tutto l'apostolato.
Ma i laici sono soprattutto chiamati a
rendere presente e operosa la Chiesa in quei
luoghi e in quelle circostanze, in cui essa
non può diventare sale della terra se non
per loro mezzo [113].
Così ogni laico, in virtù dei doni che gli
sono stati fatti, è testimonio e insieme
vivo strumento della stessa missione della
Chiesa « secondo la misura del dono del
Cristo » (Ef 4,7).
Oltre a questo apostolato, che spetta a
tutti i fedeli senza eccezione, i laici
possono anche essere chiamati in diversi
modi a collaborare più immediatamente con
l'apostolato della Gerarchia [114]
a somiglianza di quegli uomini e donne che
aiutavano l'apostolo Paolo
nell'evangelizzazione, faticando molto per
il Signore (cfr. Fil 4,3; Rm 16,3 ss). Hanno
inoltre la capacità per essere assunti dalla
gerarchia ad esercitare, per un fine
spirituale, alcuni uffici ecclesiastici.
Grava quindi su tutti i laici il glorioso
peso di lavorare, perché il disegno divino
di salvezza raggiunga ogni giorno più tutti
gli uomini di tutti i tempi e di tutta la
terra. Sia perciò loro aperta qualunque via
affinché, secondo le loro forze e le
necessità dei tempi, anch'essi attivamente
partecipino all'opera salvifica della
Chiesa.
Partecipazione dei laici al
sacerdozio comune
34. Il sommo ed eterno sacerdote Gesù
Cristo, volendo continuare la sua
testimonianza e il suo ministero anche
attraverso i laici, li vivifica col suo
Spirito e incessantemente li spinge ad ogni
opera buona e perfetta.
A coloro infatti che intimamente
congiunge alla sua vita e alla sua missione,
concede anche di aver parte al suo ufficio
sacerdotale per esercitare un culto
spirituale, in vista della glorificazione di
Dio e della salvezza degli uomini. Perciò i
laici, essendo dedicati a Cristo e
consacrati dallo Spirito Santo, sono in modo
mirabile chiamati e istruiti per produrre
frutti dello Spirito sempre più abbondanti.
Tutte infatti le loro attività, preghiere e
iniziative apostoliche, la vita coniugale e
familiare, il lavoro giornaliero, il
sollievo spirituale e corporale, se sono
compiute nello Spirito, e anche le molestie
della vita, se sono sopportate con pazienza,
diventano offerte spirituali gradite a Dio
attraverso Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 2,5);
nella celebrazione dell'eucaristia sono in
tutta pietà presentate al Padre insieme
all'oblazione del Corpo del Signore. Così
anche i laici, in quanto adoratori dovunque
santamente operanti, consacrano a Dio il
mondo stesso.
Partecipazione dei laici alla
funzione profetica del Cristo
35. Cristo, il grande profeta, il quale
con la testimonianza della sua vita e con la
potenza della sua parola ha proclamato il
regno del Padre, adempie il suo ufficio
profetico fino alla piena manifestazione
della gloria, non solo per mezzo della
gerarchia, che insegna in nome e con la
potestà di lui, ma anche per mezzo dei
laici, che perciò costituisce suoi testimoni
provvedendoli del senso della fede e della
grazia della parola (cfr. At 2,17-18; Ap
19,10), perché la forza del Vangelo
risplenda nella vita quotidiana, familiare e
sociale. Essi si mostrano figli della
promessa quando, forti nella fede e nella
speranza, mettono a profitto il tempo
presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e con
pazienza aspettano la gloria futura (cfr. Rm
8,25). E questa speranza non devono
nasconderla nel segreto del loro cuore, ma
con una continua conversione e lotta «contro
i dominatori di questo mondo tenebroso e
contro gli spiriti maligni» (Ef 6,12),
devono esprimerla anche attraverso le
strutture della vita secolare.
Come i sacramenti della nuova legge,
alimento della vita e dell'apostolato dei
fedeli, prefigurano un cielo nuovo e una
nuova terra (cfr. Ap 21,1), così i laici
diventano araldi efficaci della fede in ciò
che si spera (cfr. Eb 11,1), se senza
incertezze congiungono a una vita di fede la
professione di questa stessa fede. Questa
evangelizzazione o annunzio di Cristo fatto
con la testimonianza della vita e con la
parola acquista una certa nota specifica e
una particolare efficacia dal fatto che
viene compiuta nelle comuni condizioni del
secolo.
In questo ordine di funzioni appare di
grande valore quello stato di vita che è
santificato da uno speciale sacramento: la
vita matrimoniale e familiare. L'esercizio e
scuola per eccellenza di apostolato dei
laici si ha là dove la religione cristiana
permea tutta l'organizzazione della vita e
ogni giorno più la trasforma. Là i coniugi
hanno la propria vocazione: essere l'uno
all'altro e ai figli testimoni della fede e
dell'amore di Cristo. La famiglia cristiana
proclama ad alta voce allo stesso tempo le
virtù presenti del regno di Dio e la
speranza della vita beata. Così, col suo
esempio e con la sua testimonianza, accusa
il mondo di peccato e illumina quelli che
cercano la verità.
I laici quindi, anche quando sono
occupati in cure temporali, possono e devono
esercitare una preziosa azione per
l'evangelizzazione del mondo. Alcuni di
loro, in mancanza di sacri ministri o
essendo questi impediti in regime di
persecuzione, suppliscono alcuni uffici
sacri secondo le proprie possibilità; altri,
più numerosi, spendono tutte le loro forze
nel lavoro apostolico: bisogna tuttavia che
tutti cooperino all' estensione e al
progresso del regno di Cristo nel mondo.
Perciò i laici si applichino con diligenza
all'approfondimento della verità rivelata e
domandino insistentemente a Dio il dono
della sapienza.
Partecipazione dei laici al
servizio regale
36. Cristo, fattosi obbediente fino alla
morte e perciò esaltato dal Padre (cfr. Fil
2,8-9), è entrato nella gloria del suo
regno; a lui sono sottomesse tutte le cose,
fino a che egli sottometta al Padre se
stesso e tutte le creature, affinché Dio sia
tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,27-28). Questa
potestà egli l'ha comunicata ai discepoli,
perché anch'essi siano costituiti nella
libertà regale e con l'abnegazione di sé e
la vita santa vincano in se stessi il regno
del peccato anzi, servendo il Cristo anche
negli altri, con umiltà e pazienza conducano
i loro fratelli al Re, servire i1 quale è
regnare. Il Signore infatti desidera
estendere il suo regno anche per mezzo dei
fedeli laici: i1 suo regno che è regno « di
verità e di vita, regno di santità e di
grazia, regno di giustizia, di amore e di
pace » [115]
e in questo regno anche le stesse creature
saranno liberate dalla schiavitù della
corruzione per partecipare alla gloriosa
libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21).
Grande veramente è la promessa, grande il
comandamento dato ai discepoli: « Tutto è
vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è
di Dio » (1 Cor 3,23).
I fedeli perciò devono riconoscere la
natura profonda di tutta la creazione, il
suo valore e la sua ordinazione alla lode di
Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più
santa anche con opere propriamente secolari,
affinché il mondo si impregni dello spirito
di Cristo e raggiunga più efficacemente il
suo fine nella giustizia, nella carità e
nella pace. Nel compimento universale di
questo ufficio, i laici hanno il posto di
primo piano. Con la loro competenza quindi
nelle discipline profane e con la loro
attività, elevata intrinsecamente dalla
grazia di Cristo, portino efficacemente
l'opera loro, affinché i beni creati,
secondo i fini del Creatore e la luce del
suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro
umano, dalla tecnica e dalla cultura civile
per l'utilità di tutti gli uomini senza
eccezione, e siano tra loro più
convenientemente distribuiti e, secondo la
loro natura, portino al progresso universale
nella libertà umana e cristiana. Così Cristo
per mezzo dei membri della Chiesa illuminerà
sempre di più l'intera società umana con la
sua luce che salva.
Inoltre i laici, anche consociando le
forze, risanino le istituzioni e le
condizioni del mondo, se ve ne siano che
provocano al peccato, così che tutte siano
rese conformi alle norme della giustizia e,
anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio
delle virtù. Così agendo impregneranno di
valore morale la cultura e le opere umane.
In questo modo il campo del mondo si trova
meglio preparato per accogliere il seme
della parola divina, e insieme le porte
della Chiesa si aprono più larghe, per
permettere che l'annunzio della pace entri
nel mondo.
Per l'economia stessa della salvezza
imparino i fedeli a ben distinguere tra i
diritti e i doveri, che loro incombono in
quanto membri della Chiesa, e quelli che
competono loro in quanto membri della
società umana. cerchino di metterli in
armonia fra loro, ricordandosi che in ogni
cosa temporale devono essere guidati dalla
coscienza cristiana, poiché nessuna attività
umana, neanche nelle cose temporali, può
essere sottratta al comando di Dio. Nel
nostro tempo è sommamente necessario che
questa distinzione e questa armonia
risplendano nel modo più chiaro possibile
nella maniera di agire dei fedeli, affinché
la missione della Chiesa possa più
pienamente rispondere alle particolari
condizioni del mondo moderno. Come infatti
si deve riconoscere che la città terrena,
legittimamente dedicata alle cure secolari,
è retta da propri principi, così a ragione è
rigettata 1 infausta dottrina che pretende
di costruire la società senza alcuna
considerazione per la religione e impugna ed
elimina la libertà religiosa dei cittadini [116].
I laici e la gerarchia
37. I laici, come tutti i fedeli, hanno
il diritto di ricevere abbondantemente dai
sacri pastori i beni spirituali della
Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola
di Dio e dei sacramenti [117];
ad essi quindi manifestino le loro necessità
e i loro desideri con quella libertà e
fiducia che si addice ai figli di Dio e ai
fratelli in Cristo. Secondo la scienza,
competenza e prestigio di cui godono, hanno
la facoltà, anzi talora anche il dovere, di
far conoscere il loro parere su cose
concernenti il bene della Chiesa [118].
Se occorre, lo facciano attraverso gli
organi stabiliti a questo scopo dalla
Chiesa, e sempre con verità, fortezza e
prudenza, con rispetto e carità verso coloro
che, per ragione del loro sacro ufficio,
rappresentano Cristo. I laici, come tutti i
fedeli, con cristiana obbedienza prontamente
abbraccino ciò che i pastori, quali
rappresentanti di Cristo, stabiliscono in
nome del loro magistero e della loro
autorità nella Chiesa, seguendo in ciò
l'esempio di Cristo, il quale con la sua
obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti
gli uomini la via beata della libertà dei
figli di Dio. Né tralascino di raccomandare
a Dio con le preghiere i loro superiori,
affinché, dovendo questi vegliare sopra le
nostre anime come persone che ne dovranno
rendere conto, lo facciano con gioia e non
gemendo (cfr. Eb 13,17).
I pastori, da parte loro, riconoscano e
promuovano la dignità e la responsabilità
dei laici nella Chiesa; si servano
volentieri del loro prudente consiglio, con
fiducia affidino loro degli uffici in
servizio della Chiesa e lascino loro libertà
e margine di azione, anzi li incoraggino
perché intraprendano delle opere anche di
propria iniziativa. Considerino attentamente
e con paterno affetto in Cristo le
iniziative, le richieste e i desideri
proposti dai laici e, infine, rispettino e
riconoscano quella giusta libertà, che a
tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti tra i laici
e i pastori si devono attendere molti
vantaggi per la Chiesa: in questo modo
infatti si afferma nei laici il senso della
propria responsabilità, ne è favorito lo
slancio e le loro forze più facilmente
vengono associate all'opera dei pastori. E
questi, aiutati dall'esperienza dei laici [119],
possono giudicare con più chiarezza e
opportunità sia in cose spirituali che
temporali; e così tutta la Chiesa, forte di
tutti i suoi membri, compie con maggiore
efficacia la sua missione per la vita del
mondo.
Conclusione
38. Ogni laico deve essere davanti al
mondo un testimone della risurrezione e
della vita del Signore Gesù e un segno del
Dio vivo. Tutti insieme, e ognuno per la sua
parte, devono nutrire il mondo con i frutti
spirituali (cfr. Gal 5,22) e in esso
diffondere lo spirito che anima i poveri,
miti e pacifici, che il Signore nel Vangelo
proclamò beati (cfr. Mt 5,3-9). In una
parola: « ciò che l'anima è nel corpo,
questo siano i cristiani nel mondo » [120].
CAPITOLO VUNIVERSALE
VOCAZIONE ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA
La santità nella Chiesa
39. La Chiesa, il cui mistero è esposto
dal sacro Concilio, è agli occhi della fede
indefettibilmente santa. Infatti Cristo,
Figlio di Dio, il quale col Padre e lo
Spirito è proclamato « il solo Santo » [121],
amò la Chiesa come sua sposa e diede se
stesso per essa, al fine di santificarla
(cfr. Ef 5,25-26), l'ha unita a sé come suo
corpo e l'ha riempita col dono dello Spirito
Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti
nella Chiesa, sia che appartengano alla
gerarchia, sia che siano retti da essa, sono
chiamati alla santità, secondo le parole
dell'Apostolo: « Sì, ciò che Dio vuole è la
vostra santificazione » (1 Ts 4,3; cfr. Ef
1,4). Orbene, questa santità della Chiesa
costantemente si manifesta e si deve
manifestare nei frutti della grazia che lo
Spirito produce nei fedeli; si esprime in
varie forme in ciascuno di quelli che
tendono alla carità perfetta nella linea
propria di vita ed edificano gli altri; e in
un modo tutto suo proprio si manifesta nella
pratica dei consigli che si sogliono
chiamare evangelici. Questa pratica dei
consigli, abbracciata da molti cristiani per
impulso dello Spirito Santo, sia a titolo
privato, sia in una condizione o stato
sanciti nella Chiesa, porta e deve portare
nel mondo una luminosa testimonianza e un
esempio di questa santità.
Vocazione universale alla santità
40. Il Signore Gesù, maestro e modello
divino di ogni perfezione, a tutti e a
ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi
condizione ha predicato quella santità di
vita, di cui egli stesso è autore e
perfezionatore: «Siate dunque perfetti come
è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt
5,48) [122].
Mandò infatti a tutti lo Spirito Santo, che
li muova internamente ad amare Dio con tutto
il cuore, con tutta l'anima, con tutta la
mente, con tutte le forze (cfr Mc 12,30), e
ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato
loro (cfr. Gv 13,34; 15,12). I seguaci di
Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle
loro opere, ma a titolo del suo disegno e
della grazia, giustificati in Gesù nostro
Signore, nel battesimo della fede sono stati
fatti veramente figli di Dio e compartecipi
della natura divina, e perciò realmente
santi. Essi quindi devono, con l'aiuto di
Dio, mantenere e perfezionare con la loro
vita la santità che hanno ricevuto. Li
ammonisce l'Apostolo che vivano « come si
conviene a santi » (Ef 5,3), si rivestano
«come si conviene a eletti di Dio, santi e
prediletti, di sentimenti di misericordia,
di bontà, di umiltà, di dolcezza e di
pazienza » (Col 3,12) e portino i frutti
dello Spirito per la loro santificazione
(cfr. Gal 5,22; Rm 6,22). E poiché tutti
commettiamo molti sbagli (cfr. Gc 3,2),
abbiamo continuamente bisogno della
misericordia di Dio e dobbiamo ogni giorno
pregare: « Rimetti a noi i nostri debiti »
(Mt 6,12) [123].
È dunque evidente per tutti, che tutti
coloro che credono nel Cristo di qualsiasi
stato o rango, sono chiamati alla pienezza
della vita cristiana e alla perfezione della
carità [124]
e che tale santità promuove nella stessa
società terrena un tenore di vita più umano.
Per raggiungere questa perfezione i fedeli
usino le forze ricevute secondo la misura
con cui Cristo volle donarle, affinché,
seguendo l'esempio di lui e diventati
conformi alla sua immagine, in tutto
obbedienti alla volontà del Padre, con piena
generosità si consacrino alla gloria di Dio
e al servizio del prossimo. Così la santità
del popolo di Dio crescerà in frutti
abbondanti, come è splendidamente dimostrato
nella storia della Chiesa dalla vita di
tanti santi.
Esercizio multiforme della santità
41. Nei vari generi di vita e nei vari
compiti una unica santità è coltivata da
quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e,
obbedienti alla voce del Padre e adorando in
spirito e verità Dio Padre, camminano al
seguito del Cristo povero, umile e carico
della croce, per meritare di essere
partecipi della sua gloria. Ognuno secondo i
propri doni e uffici deve senza indugi
avanzare per la via della fede viva, la
quale accende la speranza e opera per mezzo
della carità . In primo luogo i pastori del
gregge di Cristo devono, a immagine del
sommo ed eterno sacerdote, pastore e vescovo
delle anime nostre, compiere con santità e
slancio, umiltà e forza il proprio
ministero: esso, così adempiuto, sarà anche
per loro un eccellente mezzo di
santificazione. Chiamati per ricevere la
pienezza del sacerdozio, è loro data la
grazia sacramentale affinché, mediante la
preghiera, il sacrificio e la predicazione,
mediante ogni forma di cura e di servizio
episcopale, esercitino un perfetto ufficio
di carità pastorale [125]
non temano di dare la propria vita per le
pecorelle e, fattisi modello del gregge
(cfr. 1 Pt 5,3), aiutino infine con
l'esempio la Chiesa ad avanzare verso una
santità ogni giorno più grande.
I sacerdoti, a somiglianza dell'ordine
dei vescovi, dei quali formano la corona
spirituale [126]
partecipando alla grazia dell'ufficio di
quelli per mezzo di Cristo, eterno ed unico
mediatore, mediante il quotidiano esercizio
del proprio ufficio crescano nell'amore di
Dio e del prossimo, conservino il vincolo
della comunione sacerdotale, abbondino in
ogni bene spirituale e diano a tutti la viva
testimonianza di Dio [127]
emuli di quei sacerdoti che nel corso dei
secoli, in un servizio spesso umile e
nascosto, hanno lasciato uno splendido
esempio di santità. La loro lode risuona
nella Chiesa di Dio. Pregando e offrendo il
sacrificio, com'è loro dovere, per il loro
popolo e per tutto il popolo di Dio,
cosciente di ciò che fanno e confermandosi
ai misteri che compiono [128]
anziché essere ostacolati dalle cure
apostoliche, dai pericoli e dalle
tribolazioni, ascendano piuttosto per mezzo
dì esse ad una maggiore santità, nutrendo e
dando slancio con l'abbondanza della
contemplazione alla propria attività, per il
conforto di tutta la Chiesa di Dio. Tutti i
sacerdoti e specialmente quelli che, a
titolo particolare della loro ordinazione,
portano il nome di sacerdoti diocesani,
ricordino quanto contribuiscano alla loro
santificazione la fedele unione e la
generosa cooperazione col loro vescovo.
Alla missione e alla grazia del supremo
Sacerdote partecipano in modo proprio anche
i ministri di ordine inferiore; e prima di
tutto i diaconi, i quali, servendo i misteri
di Dio e della Chiesa [129]
devono mantenersi puri da ogni vizio,
piacere a Dio e studiarsi di fare ogni
genere di opere buone davanti agli uomini
(cfr. 1 Tm 3,8-10; e 12-13). I chierici che,
chiamati dal Signore e separati per aver
parte con lui, sotto la vigilanza dei
pastori si preparano alle funzioni di sacri
ministri, sono tenuti a conformare le loro
menti e i loro cuori a una così eccelsa
vocazione; assidui nell'orazione, ferventi
nella carità, intenti a quanto è vero,
giusto e onorevole, facendo tutto per la
gloria e l'onore di Dio. A questi bisogna
aggiungere quei laici scelti da Dio, i quali
sono chiamati dal vescovo, perché si diano
più completamente alle opere apostoliche, e
nel campo del Signore lavorano con molto
frutto [130].
I coniugi e i genitori cristiani,
seguendo la loro propria via, devono
sostenersi a vicenda nella fedeltà
dell'amore con l'aiuto della grazia per
tutta la vita, e istruire nella dottrina
cristiana e nelle virtù evangeliche la
prole, che hanno amorosamente accettata da
Dio. Così infatti offrono a tutti l'esempio
di un amore instancabile e generoso,
edificando la carità fraterna e diventano
testimoni e cooperatori della fecondità
della madre Chiesa, in segno e
partecipazione di quell'amore, col quale
Cristo amò la sua sposa e si è dato per lei
[131].
Un simile esempio è offerto in altro modo
dalle persone vedove e celibatarie, le quali
pure possono contribuire non poco alla
santità e alla operosità della Chiesa.
Quelli poi che sono dediti a lavori spesso
faticosi, devono con le opere umane
perfezionare se stessi, aiutare i
concittadini e far progredire tutta la
società e la creazione verso uno stato
migliore; devono infine, con carità operosa,
imitare Cristo, le cui mani si esercitarono
in lavori manuali e il quale sempre opera
col Padre alla salvezza di tutti, in ciò
animati da una gioiosa speranza, aiutandosi
gli uni gli altri a portare i propri
fardelli, ascendendo mediante il lavoro
quotidiano a una santità sempre più alta,
santità che sarà anche apostolica.
Sappiano che sono pure uniti in modo
speciale a Cristo sofferente per la salute
del mondo quelli che sono oppressi dalla
povertà, dalla infermità, dalla malattia e
dalle varie tribolazioni, o soffrono
persecuzioni per la giustizia: il Signore
nel Vangelo li ha proclamati beati, e « il
Dio... di ogni grazia, che ci ha chiamati
all'eterna sua gloria in Cristo Gesù, dopo
un po' di patire, li condurrà egli stesso a
perfezione e li renderà stabili e sicuri» (1
Pt 5,10).
Tutti quelli che credono in Cristo
saranno quindi ogni giorno più santificati
nelle condizioni, nei doveri o circostanze
che sono quelle della loro vita, e per mezzo
di tutte queste cose, se le ricevono con
fede dalla mano del Padre celeste e
cooperano con la volontà divina,
manifestando a tutti, nello stesso servizio
temporale, la carità con la quale Dio ha
amato il mondo.
Vie e mezzi di santità
42. « Dio è amore e chi rimane
nell'amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1
Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo,
che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono
primo e più necessario è la carità, con la
quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il
prossimo per amore di lui. Ma perché la
carità, come buon seme, cresca e nidifichi,
ogni fedele deve ascoltare volentieri la
parola di Dio e con l'aiuto della sua grazia
compiere con le opere la sua volontà,
partecipare frequentemente ai sacramenti,
soprattutto all'eucaristia, e alle azioni
liturgiche; applicarsi costantemente alla
preghiera, all'abnegazione di se stesso,
all'attivo servizio dei fratelli e
all'esercizio di tutte le virtù. La carità
infatti, quale vincolo della perfezione e
compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm
13,10), regola tutti i mezzi di
santificazione, dà loro forma e li conduce
al loro fine [132].
Perciò il vero discepolo di Cristo è
contrassegnato dalla carità verso Dio e
verso il prossimo.
Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato
la sua carità dando per noi la vita, nessuno
ha più grande amore di colui che dà la vita
per lui e per i fratelli (cfr. 1 Gv 3,16; Gv
15,13). Già fin dai primi tempi quindi,
alcuni cristiani sono stati chiamati, e
altri lo saranno sempre, a rendere questa
massima testimonianza d'amore davanti agli
uomini, e specialmente davanti ai
persecutori. Perciò il martirio, col quale
il discepolo è reso simile al suo maestro
che liberamente accetta la morte per la
salute del mondo, e col quale diventa simile
a lui nella effusione del sangue, è stimato
dalla Chiesa come dono insigne e suprema
prova di carità. Ché se a pochi è concesso,
tutti però devono essere pronti a confessare
Cristo davanti agli uomini e a seguirlo
sulla via della croce durante le
persecuzioni, che non mancano mai alla
Chiesa.
Parimenti la santità della Chiesa è
favorita in modo speciale dai molteplici
consigli che il Signore nel Vangelo propone
all'osservanza dei suoi discepoli [133].
Tra essi eccelle il prezioso dono della
grazia divina, dato dal Padre ad alcuni
(cfr. Mt 19,11; 1 Cor 7,7), di consacrarsi,
più facilmente e senza divisione del cuore
(cfr. 1 Cor 7,7), a Dio solo nella verginità
o nel celibato [134].
Questa perfetta continenza per il regno dei
cieli è sempre stata tenuta in singolare
onore dalla Chiesa, quale segno e stimolo
della carità e speciale sorgente di
fecondità spirituale nel mondo.
La Chiesa ripensa anche al monito
dell'Apostolo, il quale incitando i fede]i
alla carità, ]i esorta ad avere in sé gli
stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
il quale « spogliò se stesso, prendendo la
natura di un servo... facendosi obbediente
fino alla morte » (Fil 2,7-8), e per noi «da
ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9).
L'imitazione e la testimonianza di questa
carità e umiltà del Cristo si impongono ai
discepoli in permanenza; per questo la
Chiesa, nostra madre, si rallegra di trovare
nel suo seno molti uomini e donne che
seguono più da vicino questo annientamento
del Salvatore e più chiaramente lo mostrano,
abbracciando, nella libertà dei figli di
Dio, la povertà e rinunziando alla propria
volontà: essi cioè per amore di Dio, in ciò
che riguarda la perfezione, si sottomettono
a una creatura umana al di là della stretta
misura del precetto, al fine di conformarsi
più pienamente a Cristo obbediente [135].
Tutti i fedeli del Cristo quindi sono
invitati e tenuti a perseguire la santità e
la perfezione del proprio stato. Perciò
tutti si sforzino di dirigere rettamente i
propri affetti, affinché dall'uso delle cose
di questo mondo e da un attaccamento alle
ricchezze contrario allo spirito della
povertà evangelica non siano impediti di
tendere alla carità perfetta; ammonisce
infatti l'Apostolo: Quelli che usano di
questo mondo, non vi ci si arrestino, perché
passa la scena di questo mondo (cfr. 1 Cor
7,31 gr.) [136].
CAPITOLO VII RELIGIOSI
I consigli evangelici nella Chiesa
43. I consigli evangelici della castità
consacrata a Dio, della povertà e
dell'obbedienza, essendo fondati sulle
parole e sugli esempi del Signore e
raccomandati dagli apostoli, dai Padri e dai
dottori e pastori della Chiesa, sono un dono
divino che la Chiesa ha ricevuto dal suo
Signore e con la sua grazia sempre conserva.
La stessa autorità della Chiesa, sotto la
guida dello Spirito Santo, si è data cura di
interpretarli, di regolarne la pratica e
anche di stabilire sulla loro base delle
forme stabili di vita. Avvenne quindi che,
come un albero che si ramifica in modi
mirabili e molteplici nel campo del Signore
a partire da un germe seminato da Dio, si
sviluppassero varie forme di vita solitaria
o comune e varie famiglie, il cui capitale
spirituale contribuisce al bene sia dei
membri di quelle famiglie, sia di tutto il
corpo di Cristo [137].
Quelle famiglie infatti forniscono ai loro
membri gli aiuti di una maggiore stabilità
nella loro forma di vita, di una dottrina
provata per il conseguimento della
perfezione, della comunione fraterna nella
milizia di Cristo, di una libertà
corroborata dall'obbedienza, così che
possano adempiere con sicurezza e custodire
con fedeltà la loro professione religiosa,
avanzando nella gioia spirituale sul cammino
della carità [138].
Un simile stato, se si riguardi la divina
e gerarchica costituzione della Chiesa, non
è intermedio tra la condizione clericale e
laicale, ma da entrambe le parti alcuni
fedeli sono chiamati da Dio a fruire di
questo speciale dono nella vita della Chiesa
e ad aiutare, ciascuno a suo modo, la sua
missione salvifica [139].
Natura e importanza dello stato
religioso
44. Con i voti o altri impegni sacri
simili ai voti secondo il modo loro proprio,
il fedele si obbliga all'osservanza dei tre
predetti consigli evangelici; egli si dona
totalmente a Dio amato al di sopra di tutto,
così da essere con nuovo e speciale titolo
destinato al servizio e all'onore di Dio.
Già col battesimo è morto al peccato e
consacrato a Dio; ma per poter raccogliere
in più grande abbondanza i frutti della
grazia battesimale, con la professione dei
consigli evangelici nella Chiesa intende
liberarsi dagli impedimenti che potrebbero
distoglierlo dal fervore della carità e
dalla perfezione del culto divino, e si
consacra più intimamente al servizio di Dio
[140].
La consacrazione poi sarà più perfetta, in
quanto legami più solidi e stabili
riproducono di più l'immagine del Cristo
unito alla Chiesa sua sposa da un legame
indissolubile.
Siccome quindi i consigli evangelici, per
mezzo della carità alla quale conducono [141]
congiungono in modo speciale coloro che li
praticano alla Chiesa e al suo mistero, la
loro vita spirituale deve pure essere
consacrata al bene di tutta la Chiesa. Di
qui deriva il dovere di lavorare, secondo le
forze e la forma della propria vocazione,
sia con la preghiera, sia anche con
l'attività effettiva, a radicare e
consolidare negli animi il regno di Cristo e
a dilatarlo in ogni parte della terra. Per
questo la Chiesa difende e sostiene l'indole
propria dei vari istituti religiosi. Perciò
la professione dei consigli evangelici
appare come un segno, il quale può e deve
attirare efficacemente tutti i membri della
Chiesa a compiere con slancio i doveri della
vocazione cristiana. Poiché infatti il
popolo di Dio non ha qui città permanente,
ma va in cerca della futura, lo stato
religioso, il quale rende più liberi i suoi
seguaci dalle cure terrene, meglio anche
manifesta a tutti i credenti i beni celesti
già presenti in questo tempo, meglio
testimonia l'esistenza di una vita nuova ed
eterna, acquistata dalla redenzione di
Cristo, e meglio preannunzia la futura
resurrezione e la gloria del regno celeste.
Parimenti, lo stato religioso imita più
fedelmente e rappresenta continuamente nella
Chiesa la forma di vita che il Figlio di Dio
abbracciò venendo nel mondo per fare la
volontà del Padre e che propose ai discepoli
che lo seguivano. Infine, in modo speciale
manifesta l'elevazione del regno di Dio
sopra tutte le cose terrestri e le sue
esigenze supreme; dimostra pure a tutti gli
uomini la preminente grandezza della potenza
di Cristo-Re e la infinita potenza dello
Spirito Santo, mirabilmente operante nella
Chiesa.
Lo stato di vita dunque costituito dalla
professione dei consigli evangelici, pur non
concernendo la struttura gerarchica della
Chiesa, appartiene tuttavia inseparabilmente
alla sua vita e alla sua santità.
La gerarchia e lo stato religioso
45. Essendo ufficio della gerarchia
ecclesiastica di pascere il popolo di Dio e
condurlo a pascoli ubertosi (cfr. Ez 34,14),
spetta ad essa di regolare sapientemente con
le sue leggi la pratica dei consigli
evangelici, strumento singolare al servizio
della carità perfetta verso Dio e verso il
prossimo [142],
Essa inoltre, seguendo docilmente gli
impulsi dello Spirito Santo, accoglie le
regole proposte da uomini e donne esimi, e,
infine dopo averle messe a punto più
perfettamente, dà loro una approvazione
autentica; con la sua autorità vigile e
protettrice viene pure in aiuto agli
istituti, dovunque eretti per l'edificazione
del corpo di Cristo, perché abbiano a
crescere e fiorire secondo lo spirito dei
fondatori.
Perché poi sia provveduto il meglio
possibile alle necessità dell'intero gregge
del Signore, il sommo Pontefice può, in
ragione del suo primato sulla Chiesa
universale e in vista dell'interesse comune
esentare ogni istituto di perfezione e
ciascuno dei suoi membri dalla giurisdizione
dell'ordinario del luogo e sottoporli a sé
solo [143].
Similmente essi possono essere lasciati o
affidati alle proprie autorità patriarcali.
Da parte loro i membri nel compiere i loro
doveri verso la Chiesa secondo la loro forma
particolare di vita, devono, conforme alle
leggi canoniche, prestare riverenza e
obbedienza ai vescovi, a causa della loro
autorità pastorale nelle Chiese particolari
e per la necessaria unità e concordia nel
lavoro apostolico [144].
La Chiesa non solo erige con la sua
sanzione la professione religiosa alla
dignità dello stato canonico, ma con la sua
azione liturgica la presenta pure come stato
di consacrazione a Dio. La stessa Chiesa
infatti, in nome dell'autorità affidatagli
da Dio, riceve i voti di quelli che fanno la
professione, per loro impetra da Dio gli
aiuti e la grazia con la sua preghiera
pubblica, li raccomanda a Dio e impartisce
loro una benedizione spirituale, associando
la loro offerta al sacrificio eucaristico.
Grandezza della consacrazione
religiosa
46. I religiosi pongano ogni cura,
affinché per loro mezzo la Chiesa abbia ogni
giorno meglio da presentare Cristo ai fedeli
e agli infedeli: sia nella sua
contemplazione sul monte, sia nel suo
annuncio del regno di Dio alle turbe, sia
quando risana i malati e gli infermi e
converte a miglior vita i peccatori, sia
quando benedice i fanciulli e fa del bene a
tutti, sempre obbediente alla volontà del
Padre che lo ha mandato [145].
Tutti infine abbiano ben chiaro che la
professione dei consigli evangelici,
quantunque comporti la rinunzia di beni
certamente molto apprezzabili, non si oppone
al vero progresso della persona umana, ma al
contrario per sua natura le è di grandissimo
profitto. Infatti i consigli,
volontariamente abbracciati secondo la
personale vocazione di ognuno,
contribuiscono considerevolmente alla
purificazione del cuore e alla libertà
spirituale, stimolano in permanenza il
fervore della carità e soprattutto come è
comprovato dall'esempio di tanti santi
fondatori, sono capaci di assicurare al
cristiano una conformità più grande col
genere di vita verginale e povera che Cristo
Signore si scelse per sé e che la vergine
Madre sua abbracciò. Né pensi alcuno che i
religiosi con la loro consacrazione
diventino estranei agli uomini o inutili
nella città terrestre. Poiché, se anche
talora non sono direttamente presenti a
fianco dei loro contemporanei, li tengono
tuttavia presenti in modo più profondo con
la tenerezza di Cristo, e con essi
collaborano spiritualmente, affinché la
edificazione della città terrena sia sempre
fondata nel Signore, e a lui diretta, né
avvenga che lavorino invano quelli che la
stanno edificando [146].
Perciò il sacro Concilio conferma e loda
quegli uomini e quelle donne, quei fratelli
e quelle sorelle, i quali nei monasteri,
nelle scuole, negli ospedali e nelle
missioni, con perseverante e umile fedeltà
alla loro consacrazione, onorano la sposa di
Cristo e a tutti gli uomini prestano
generosi e diversissimi servizi.
Esortazione alla perseveranza
47. Ognuno poi che è chiamato alla
professione dei consigli, ponga ogni cura
nel perseverare e maggiormente eccellere
nella vocazione a cui Dio l'ha chiamato, per
una più grande santità della Chiesa e per la
maggior gloria della Trinità, una e
indivisa, la quale in Cristo e per mezzo di
Cristo è la fonte e l'origine di ogni
santità.
CAPITOLO VIIINDOLE
ESCATOLOGICA DELLA CHIESA PEREGRINANTE
E SUA UNIONE CON LA CHIESA CELESTE
Natura escatologica della nostra
vocazione
48. La Chiesa, alla quale tutti siamo
chiamati in Cristo Gesù e nella quale per
mezzo della grazia di Dio acquistiamo la
santità, non avrà il suo compimento se non
nella gloria celeste, quando verrà il tempo
in cui tutte le cose saranno rinnovate (cfr.
Ap 3,21), e col genere umano anche tutto
l'universo, il quale è intimamente congiunto
con l'uomo e per mezzo di lui arriva al suo
fine, troverà nel Cristo la sua definitiva
perfezione (cfr. Ef 1,10; Col 1,20).
E invero il Cristo, quando fu levato in
alto da terra, attirò tutti a sé (cfr. Gv
12,32 gr.); risorgendo dai morti (cfr. Rm
6,9) immise negli apostoli il suo Spirito
vivificatore, e per mezzo di lui costituì il
suo corpo, che è la Chiesa, quale sacramento
universale della salvezza; assiso alla
destra del Padre, opera continuamente nel
mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e
attraverso di essa congiungerli più
strettamente a sé e renderli partecipi della
sua vita gloriosa col nutrimento del proprio
corpo e del proprio sangue. Quindi la nuova
condizione promessa e sperata è già
incominciata con Cristo; l'invio dello
Spirito Santo le ha dato il suo slancio e
per mezzo di lui essa continua nella Chiesa,
nella quale siamo dalla fede istruiti anche
sul senso della nostra vita temporale,
mentre portiamo a termine, nella speranza
dei beni futuri, l'opera a noi affidata nel
mondo dal Padre e attuiamo così la nostra
salvezza (cfr. Fil 2,12).
Già dunque è arrivata a noi l'ultima fase
dei tempi (cfr. 1 Cor 10,11). La
rinnovazione del mondo è irrevocabilmente
acquisita e in certo modo reale è anticipata
in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla
terra è adornata di vera santità, anche se
imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi
saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei
quali la giustizia ha la sua dimora (cfr. 2
Pt 3,13), la Chiesa peregrinante nei suoi
sacramenti e nelle sue istituzioni, che
appartengono all'età presente, porta la
figura fugace di questo mondo; essa vive tra
le creature, le quali ancora gemono, sono
nel travaglio del parto e sospirano la
manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm
8,19-22).
Congiunti dunque con Cristo nella Chiesa
e contrassegnati dallo Spirito Santo « che è
il pegno della nostra eredità » (Ef 1,14),
con verità siamo chiamati figli di Dio, e lo
siamo veramente (cfr. 1 Gv 3,1), ma non
siamo ancora apparsi con Cristo nella gloria
(cfr. Col 3,4), nella quale saremo simili a
Dio, perché lo vedremo qual è (cfr. 1 Gv
3,2). Pertanto, « finché abitiamo in questo
corpo siamo esuli lontani dal Signore » (2
Cor 5,6); avendo le primizie dello Spirito,
gemiamo interiormente (cfr. Rm 8,23) e
bramiamo di essere con Cristo (cfr. Fil
1,23). Dalla stessa carità siamo spronati a
vivere più intensamente per lui, il quale
per noi è morto e risuscitato (cfr. 2 Cor
5,15). E per questo ci sforziamo di essere
in tutto graditi al Signore (cfr. 2 Cor 5,9)
e indossiamo l'armatura di Dio per potere
star saldi contro gli agguati del diavolo e
resistergli nel giorno cattivo (cfr. Ef
6,11-13). Siccome poi non conosciamo il
giorno né l'ora, bisogna che, seguendo
l'avvertimento del Signore, vegliamo
assiduamente, per meritare, finito il corso
irrepetibile della nostra vita terrena
(cfr.Eb 9,27), di entrare con lui al
banchetto nuziale ed essere annoverati fra i
beati (cfr. Mt 25,31-46), e non ci venga
comandato, come a servi cattivi e pigri
(cfr. Mt 25,26), di andare al fuoco eterno
(cfr Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove
«ci sarà pianto e stridore dei denti » (Mt
22,13 e 25,30). Prima infatti di regnare con
Cristo glorioso, noi tutti compariremo «
davanti al tribunale di Cristo, per ricevere
ciascuno il salario della sua vita mortale,
secondo quel che avrà fatto di bene o di
male » (2 Cor 5,10), e alla fine del mondo «
usciranno dalla tomba, chi ha operato il
bene a risurrezione di vita, e chi ha
operato il male a risurrezione di condanna »
(Gv 5,29, cfr Mt 25,46). Stimando quindi che
« le sofferenze dei tempo presente non sono
adeguate alla gloria futura che si dovrà
manifestare in noi» (Rm 8,18; cfr 2 Tm
2,11-12), forti nella fede aspettiamo «la
beata speranza e la manifestazione gloriosa
del nostro grande Iddio e Salvatore Gesù
Cristo» (Tt 2,13) « il quale trasformerà
allora il nostro misero corpo, rendendolo
conforme al suo corpo glorioso» (Fil 3,21),
e verrà «per essere glorificato nei suoi
santi e ammirato in tutti quelli che avranno
creduto ».
La Chiesa celeste e la Chiesa
peregrinante
49. Fino a che dunque il Signore non
verrà nella sua gloria, accompagnato da
tutti i suoi angeli (cfr. Mt 25,31) e,
distrutta la morte, non gli saranno
sottomesse tutte le cose (cfr. 1 Cor
15,26-27), alcuni dei suoi discepoli sono
pellegrini sulla terra, altri, compiuta
questa vita, si purificano ancora, altri
infine godono della gloria contemplando «
chiaramente Dio uno e trino, qual è » [147].
Tutti però, sebbene in grado e modo diverso,
comunichiamo nella stessa carità verso Dio e
verso il prossimo e cantiamo al nostro Dio
lo stesso inno di gloria. Tutti infatti
quelli che sono di Cristo, avendo lo Spirito
Santo, formano una sola Chiesa e sono tra
loro uniti in lui (cfr. Ef 4,16). L'unione
quindi di quelli che sono ancora in cammino
coi fratelli morti nella pace di Cristo non
è minimamente spezzata; anzi, secondo la
perenne fede della Chiesa, è consolidata
dallo scambio dei beni spirituali [148].
A causa infatti della loro più intima unione
con Cristo, gli abitanti del cielo
rinsaldano tutta la Chiesa nella santità,
nobilitano il culto che essa rende a Dio qui
in terra e in molteplici maniere
contribuiscono ad una più ampia edificazione
(cfr. 1 Cor 12,12-27) [149].
Ammessi nella patria e presenti al Signore
(cfr. 2 Cor 5,8), per mezzo di lui, con lui
e in lui non cessano di intercedere per noi
presso il Padre [150]
offrendo i meriti acquistati in terra
mediante Gesù Cristo, unico mediatore tra
Dio e gli uomini (cfr. 1 Tm 2,5), servendo
al Signore in ogni cosa e dando compimento
nella loro carne a ciò che manca alle
tribolazioni di Cristo a vantaggio del suo
corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,24) [151].
La nostra debolezza quindi è molto aiutata
dalla loro fraterna sollecitudine.
Relazioni della Chiesa celeste con
la Chiesa peregrinante
50. La Chiesa di coloro che camminano
sulla terra, riconoscendo benissimo questa
comunione di tutto il corpo mistico di Gesù
Cristo, fino dai primi tempi della religione
cristiana coltivò con grande pietà la
memoria dei defunti e, «poiché santo e
salutare è il pensiero di pregare per i
defunti [152]
perché siano assolti dai peccati», ha
offerto per loro anche suffragi. Che gli
apostoli e i martiri di Cristo, i quali con
l'effusione del loro sangue diedero la
suprema testimonianza della fede e della
carità, siano con noi strettamente uniti in
Cristo, la Chiesa lo ha sempre creduto; li
ha venerati con particolare affetto insieme
con la beata vergine Maria e i santi angeli
[153]
e ha piamente implorato il soccorso della
loro intercessione. A questi in breve se ne
aggiunsero anche altri, che avevano più da
vicino imitata la verginità e la povertà di
Cristo [154]
e infine altri, il cui singolare esercizio
delle virtù cristiane [155]
e le grazie insigni di Dio raccomandavano
alla pia devozione e imitazione dei fedeli [156].
Il contemplare infatti la vita di coloro
che hanno seguito fedelmente Cristo, è un
motivo in più per sentirsi spinti a
ricercare la città futura (cfr. Eb 13,14 e
11,10); nello stesso tempo impariamo la via
sicurissima per la quale, tra le mutevoli
cose del mondo e secondo lo stato e la
condizione propria di ciascuno [157],
potremo arrivare alla perfetta unione con
Cristo, cioè alla santità. Nella vita di
quelli che, sebbene partecipi della nostra
natura umana, sono tuttavia più
perfettamente trasformati nell'immagine di
Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta agli
uomini in una viva luce la sua presenza e il
suo volto. In loro è egli stesso che ci
parla e ci dà un segno del suo Regno [158]
verso il quale, avendo intorno a noi un tal
nugolo di testimoni (cfr. Eb 12,1) e una
tale affermazione della verità del Vangelo,
siamo potentemente attirati.
Non veneriamo però la memoria degli
abitanti del cielo solo per il loro esempio,
ma più ancora perché l'unione della Chiesa
nello Spirito sia consolidata dall'esercizio
della fraterna carità (cfr. Ef 4,1-6).
Poiché, come la cristiana comunione tra i
cristiani della terra ci porta più vicino a
Cristo, così la comunità con i santi ci
congiunge a lui, dal quale, come dalla loro
fonte e dal loro capo, promana ogni grazia e
la vita dello stesso popolo di Dio [159].
È quindi sommamente giusto che amiamo questi
amici e coeredi di Gesù Cristo, che sono
anche nostri fratelli e insigni benefattori,
e che per essi rendiamo le dovute grazie a
Dio [160],
«rivolgiamo loro supplici invocazioni e
ricorriamo alle loro preghiere e al loro
potente aiuto per impetrare grazie da Dio
mediante il Figlio suo Gesù Cristo, Signore
nostro, il quale solo è il nostro Redentore
e Salvatore » [161].
Infatti ogni nostra vera attestazione di
amore fatta ai santi, per sua natura tende e
termina a Cristo, che è « la corona di tutti
i santi » [162]
e per lui a Dio, che è mirabile nei suoi
santi e in essi è glorificato [163].
La nostra unione poi con la Chiesa
celeste si attua in maniera nobilissima,
poiché specialmente nella sacra liturgia,
nella quale la virtù dello Spirito Santo
agisce su di noi mediante i segni
sacramentali, in fraterna esultanza cantiamo
le lodi della divina Maestà tutti [164],
di ogni tribù e lingua, di ogni popolo e
nazione, riscattati col sangue di Cristo
(cfr. Ap 5,9) e radunati in un'unica Chiesa,
con un unico canto di lode glorifichiamo Dio
uno in tre Persone Perciò quando celebriamo
il sacrificio eucaristico, ci uniamo in
sommo grado al culto della Chiesa celeste,
comunicando con essa e venerando la memoria
soprattutto della gloriosa sempre vergine
Maria, del beato Giuseppe, dei beati
apostoli e martiri e di tutti i santi [165].
Disposizioni pastorali del Concilio
51. Questa veneranda fede dei nostri
padri nella comunione di vita che esiste con
i fratelli che sono nella gloria celeste o
che dopo la morte stanno ancora
purificandosi, questo sacrosanto Concilio la
riceve con grande pietà e nuovamente propone
i decreti dei sacri Concili Niceno II [166]
Fiorentino [167]
e Tridentino [168].
E allo stesso tempo con pastorale
sollecitudine esorta tutti i responsabili,
perché, se si fossero infiltrati qua e là
abusi, eccessi o difetti, si adoperino per
toglierli o correggerli e tutto
ristabiliscano per una più piena lode di
Cristo e di Dio. Insegnino dunque ai fedeli
che il vero culto dei Santi [169]
non consiste tanto nel moltiplicare gli atti
esteriori, quanto piuttosto nell'intensità
del nostro amore fattivo, col quale, per il
maggiore bene nostro e della Chiesa,
cerchiamo «dalla vita dei santi l'esempio,
dalla comunione con loro la partecipazione
alla loro sorte e dalla loro intercessione
l'aiuto». E d'altra parte insegnino ai
fedeli che il nostro rapporto con gli
abitanti del cielo, purché lo si concepisca
alla piena luce della fede, non diminuisce
affatto il culto di adorazione reso a Dio
Padre mediante Cristo nello Spirito, ma anzi
lo arricchisce [170].
Tutti quanti infatti, noi che siamo figli
di Dio e costituiamo in Cristo una sola
famiglia (cfr. Eb 3), mentre comunichiamo
tra noi nella mutua carità e nell'unica lode
della Trinità santissima, rispondiamo
all'intima vocazione della Chiesa e
pregustando partecipiamo alla liturgia della
gloria perfetta [171].
Poiché quando Cristo apparirà e vi sarà la
gloriosa risurrezione dei morti, lo
splendore di Dio illuminerà la città celeste
e la sua lucerna sarà l'Agnello (cfr. Ap
21,24). Allora tutta la Chiesa dei santi con
somma felicità di amore adorerà Dio e
«l'Agnello che è stato ucciso» (Ap 5,12),
proclamando a una voce: «A colui che siede
sul trono e all'Agnello, benedizione onore,
gloria e dominio per tutti i secoli dei
secoli » (Ap 5,13-14).
CAPITOLO VIIILA BEATA
MARIA VERGINE MADRE DI DIO
NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA
I. Proemio
52. Volendo Dio misericordiosissimo e
sapientissimo compiere la redenzione del
mondo, « quando venne la pienezza dei tempi,
mandò il suo Figlio, nato da una donna...
per fare di noi dei figli adottivi» (Gal
4,4-5), « Egli per noi uomini e per la
nostra salvezza è disceso dal cielo e si è
incarnato per opera dello Spirito Santo da
Maria vergine » [172].
Questo divino mistero di salvezza ci è
rivelato e si continua nella Chiesa, che il
Signore ha costituita quale suo corpo e
nella quale i fedeli, aderendo a Cristo capo
e in comunione con tutti i suoi santi,
devono pure venerare la memoria «innanzi
tutto della gloriosa sempre vergine Maria,
madre del Dio e Signore nostro Gesù Cristo »
[173]
Maria e la Chiesa
53. Infatti Maria vergine, la quale
all'annunzio dell'angelo accolse nel cuore e
nel corpo il Verbo di Dio e portò la vita al
mondo, è riconosciuta e onorata come vera
madre di Dio e Redentore. Redenta in modo
eminente in vista dei meriti del Figlio suo
e a lui unita da uno stretto e indissolubile
vincolo, è insignita del sommo ufficio e
dignità di madre del Figlio di Dio, ed è
perciò figlia prediletta del Padre e tempio
dello Spirito Santo; per il quale dono di
grazia eccezionale precede di gran lunga
tutte le altre creature, celesti e
terrestri. Insieme però, quale discendente
di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini
bisognosi di salvezza; anzi, è « veramente
madre delle membra (di Cristo)... perché
cooperò con la carità alla nascita dei
fedeli della Chiesa, i quali di quel capo
sono le membra » [174].
Per questo è anche riconosciuta quale
sovreminente e del tutto singolare membro
della Chiesa, figura ed eccellentissimo
modello per essa nella fede e nella carità;
e la Chiesa cattolica, istruita dallo
Spirito Santo, con affetto di pietà filiale
la venera come madre amatissima.
L'intenzione del Concilio
54. Perciò il santo Concilio, mentre
espone la dottrina riguardante la Chiesa,
nella quale il divino Redentore opera la
salvezza, intende illustrare attentamente da
una parte, la funzione della beata Vergine
nel mistero del Verbo incarnato e del corpo
mistico, dall'altra i doveri degli uomini, e
i doveri dei credenti in primo luogo. Il
Concilio tuttavia non ha in animo di
proporre una dottrina esauriente su Maria,
né di dirimere le questioni che il lavoro
dei teologi non ha ancora condotto a una
luce totale. Permangono quindi nel loro
diritto le sentenze, che nelle scuole
cattoliche vengono liberamente proposte
circa colei, che nella Chiesa santa occupa,
dopo Cristo, il posto più alto e il più
vicino a noi [175].
II. Funzione della beata Vergine
nell'economia della salvezza
La madre del Messia nell'Antico
Testamento
55. I libri del Vecchio e Nuovo
Testamento e la veneranda tradizione
mostrano in modo sempre più chiaro la
funzione della madre del Salvatore nella
economia della salvezza e la propongono per
così dire alla nostra contemplazione. I
libri del Vecchio Testamento descrivono la
storia della salvezza, nella quale
lentamente viene preparandosi la venuta di
Cristo nel mondo. Questi documenti
primitivi, come sono letti nella Chiesa e
sono capiti alla luce dell'ulteriore e piena
rivelazione, passo passo mettono sempre più
chiaramente in luce la figura di una donna:
la madre del Redentore. Sotto questa luce
essa viene già profeticamente adombrata
nella promessa, fatta ai progenitori caduti
in peccato, circa la vittoria sul serpente
(cfr. Gen 3,15). Parimenti, è lei, la
Vergine, che concepirà e partorirà un
Figlio, il cui nome sarà Emanuele (cfr. Is
7, 14; Mt 1,22-23). Essa primeggia tra
quegli umili e quei poveri del Signore che
con fiducia attendono e ricevono da lui la
salvezza. E infine con lei, la figlia di
Sion per eccellenza, dopo la lunga attesa
della promessa, si compiono i tempi e si
instaura la nuova « economia », quando il
Figlio di Dio assunse da lei la natura umana
per liberare l'uomo dal peccato coi misteri
della sua carne.
Maria nell'annunciazione
56. Il Padre delle misericordie ha voluto
che l'accettazione da parte della
predestinata madre precedesse
l'incarnazione, perché così, come una donna
aveva contribuito a dare la morte, una donna
contribuisse a dare la vita. Ciò vale in
modo straordinario della madre di Gesù, la
quale ha dato al mondo la vita stessa che
tutto rinnova e da Dio è stata arricchita di
doni consoni a tanto ufficio. Nessuna
meraviglia quindi se presso i santi Padri
invalse l'uso di chiamare la madre di Dio la
tutta santa e immune da ogni macchia di
peccato, quasi plasmata dallo Spirito Santo
e resa nuova creatura[176].
Adornata fin dal primo istante della sua
concezione dagli splendori di una santità
del tutto singolare, la Vergine di Nazaret è
salutata dall'angelo dell'annunciazione, che
parla per ordine di Dio, quale « piena di
grazia » (cfr. Lc 1,28) e al celeste
messaggero essa risponde « Ecco l'ancella
del Signore: si faccia in me secondo la tua
parola » (Lc 1,38). Così Maria, figlia di
Adamo, acconsentendo alla parola divina,
diventò madre di Gesù, e abbracciando con
tutto l'animo, senza che alcun peccato la
trattenesse, la volontà divina di salvezza,
consacrò totalmente se stessa quale ancella
del Signore alla persona e all'opera del
Figlio suo, servendo al mistero della
redenzione in dipendenza da lui e con lui,
con la grazia di Dio onnipotente.
Giustamente quindi i santi Padri ritengono
che Maria non fu strumento meramente passivo
nelle mani di Dio, ma che cooperò alla
salvezza dell'uomo con libera fede e
obbedienza. Infatti, come dice Sant'Ireneo,
essa «con la sua obbedienza divenne causa di
salvezza per sé e per tutto il genere umano
» [177].
Onde non pochi antichi Padri nella loro
predico della disobbedienza di Eva ha avuto
la sua soluzione coll'obbedienza di Maria;
ciò che la vergine Eva legò con la sua
incredulità, la vergine Maria sciolse con la
sua fede» [178]
e, fatto il paragone con Eva, chiamano Maria
«madre dei viventi [179]
e affermano spesso: « la morte per mezzo di
Eva, la vita per mezzo di Maria » [180].
Maria e l'infanzia di Gesù
57. Questa unione della madre col figlio
nell'opera della redenzione si manifesta dal
momento della concezione verginale di Cristo
fino alla morte di lui; e prima di tutto
quando Maria, partendo in fretta per
visitare Elisabetta, è da questa proclamata
beata per la sua fede nella salvezza
promessa, mentre il precursore esultava nel
seno della madre (cfr. Lc 1,41-45); nella
natività, poi, quando la madre di Dio mostrò
lieta ai pastori e ai magi il Figlio suo
primogenito, il quale non diminuì la sua
verginale integrità, ma la consacrò [181]
Quando poi lo presentò al Signore nel tempio
con l'offerta del dono proprio dei poveri,
udì Simeone profetizzare che il Figlio
sarebbe divenuto segno di contraddizione e
che una spada avrebbe trafitto l'anima della
madre, perché fossero svelati i pensieri di
molti cuori (cfr. Lc 2,34-35). Infine, dopo
avere perduto il fanciullo Gesù e averlo
cercato con angoscia, i suoi genitori lo
trovarono nel tempio occupato nelle cose del
Padre suo, e non compresero le sue parole. E
la madre sua conservava tutte queste cose in
cuor suo e le meditava (cfr. Lc 2,41-51).
Maria e la vita pubblica di Gesù
58. Nella vita pubblica di Gesù la madre
sua appare distintamente fin da principio,
quando alle nozze in Cana di Galilea, mossa
a compassione, indusse con la sua
intercessione Gesù Messia a dar inizio ai
miracoli (cfr. Gv 2 1-11). Durante la
predicazione di lui raccolse le parole con
le quali egli, mettendo il Regno al di sopra
delle considerazioni e dei vincoli della
carne e del sangue, proclamò beati quelli
che ascoltano e custodiscono la parola di
Dio (cfr Mc 3,35; Lc 11,27-28), come ella
stessa fedelmente faceva (cfr. Lc 2,19 e
51). Così anche la beata Vergine avanzò
nella peregrinazione della fede e serbò
fedelmente la sua unione col Figlio sino
alla croce, dove, non senza un disegno
divino, se ne stette (cfr. Gv 19,25),
soffrendo profondamente col suo Unigenito e
associandosi con animo materno al suo
sacrifico, amorosamente consenziente
all'immolazione della vittima da lei
generata; e finalmente dallo stesso Gesù
morente in croce fu data quale madre al
discepolo con queste parole: Donna, ecco tuo
figlio (cfr. Gv 19,26-27) [182].
Maria dopo l'ascensione
59. Essendo piaciuto a Dio di non
manifestare apertamente il mistero della
salvezza umana prima di effondere lo Spirito
promesso da Cristo, vediamo gli apostoli
prima del giorno della Pentecoste «
perseveranti d'un sol cuore nella preghiera
con le donne e Maria madre di Gesù e i suoi
fratelli» (At 1,14); e vediamo anche Maria
implorare con le sue preghiere il dono dello
Spirito che all'annunciazione, l'aveva presa
sotto la sua ombra. Infine la Vergine
immacolata, preservata immune da ogni
macchia di colpa originale [183]
finito il corso della sua vita terrena, fu
assunta alla celeste gloria in anima e corpo
[184]
e dal Signore esaltata quale regina
dell'universo per essere così più pienamente
conforme al figlio suo, Signore dei signori
(cfr. Ap 19,16) e vincitore del peccato e
della morte [185].
III. La beata Vergine e la Chiesa
Maria e Cristo unico mediatore
60. Uno solo è il nostro mediatore,
secondo le parole dell'Apostolo: « Poiché
non vi è che un solo Dio, uno solo è anche
il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo
Cristo Gesù, che per tutti ha dato se stesso
in riscatto » (1 Tm 2,5-6). La funzione
materna di Maria verso gli uomini in nessun
modo oscura o diminuisce questa unica
mediazione di Cristo, ma ne mostra
l'efficacia. Ogni salutare influsso della
beata Vergine verso gli uomini non nasce da
una necessità oggettiva, ma da una
disposizione puramente gratuita di Dio, e
sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di
Cristo; pertanto si fonda sulla mediazione
di questi, da essa assolutamente dipende e
attinge tutta la sua efficacia, e non
impedisce minimamente l'unione immediata dei
credenti con Cristo, anzi la facilita.
Cooperazione alla redenzione
61. La beata Vergine, predestinata fino
dall'eternità, all'interno del disegno
d'incarnazione del Verbo, per essere la
madre di Dio, per disposizione della divina
Provvidenza fu su questa terra l'alma madre
del divino Redentore, generosamente
associata alla sua opera a un titolo
assolutamente unico, e umile ancella del
Signore, concependo Cristo, generandolo,
nutrendolo, presentandolo al Padre nel
tempio, soffrendo col Figlio suo morente in
croce, ella cooperò in modo tutto speciale
all'opera del Salvatore, coll'obbedienza, la
fede, la speranza e l'ardente carità, per
restaurare la vita soprannaturale delle
anime. Per questo ella è diventata per noi
madre nell'ordine della grazia.
Funzione salvifíca subordinata
62. E questa maternità di Maria
nell'economia della grazia perdura senza
soste dal momento del consenso fedelmente
prestato nell'Annunciazione e mantenuto
senza esitazioni sotto la croce, fino al
perpetuo coronamento di tutti gli eletti.
Difatti anche dopo la sua assunzione in
cielo non ha interrotto questa funzione
salvifica, ma con la sua molteplice
intercessione continua a ottenerci i doni
che ci assicurano la nostra salvezza eterna
[186].
Con la sua materna carità si prende cura dei
fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti
e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino
a che non siano condotti nella patria beata.
Per questo la beata Vergine è invocata nella
Chiesa con i titoli di avvocata,
ausiliatrice, soccorritrice, Mediatrice [187].
Ciò però va inteso in modo che nulla sia
detratto o aggiunto alla dignità e alla
efficacia di Cristo, unico Mediatore [188].
Nessuna creatura infatti può mai essere
paragonata col Verbo incarnato e redentore.
Ma come il sacerdozio di Cristo è in vari
modi partecipato, tanto dai sacri ministri,
quanto dal popolo fedele, e come l'unica
bontà di Dio è realmente diffusa in vari
modi nelle creature, così anche l'unica
mediazione del Redentore non esclude, bensì
suscita nelle creature una varia
cooperazione partecipata da un'unica fonte.
a Chiesa non dubita di riconoscerla
apertamente; essa non cessa di farne
l'esperienza e la raccomanda all'amore dei
fedeli, perché, sostenuti da questo materno
aiuto, siano più intimamente congiunti col
Mediatore e Salvatore.
Maria vergine e madre, modello
della Chiesa
63. La beata Vergine, per il dono e
l'ufficio della divina maternità che la
unisce col Figlio redentore e per le sue
singolari grazie e funzioni, è pure
intimamente congiunta con la Chiesa: la
madre di Dio è figura della Chiesa, come già
insegnava sant'Ambrogio, nell'ordine cioè
della fede, della carità e della perfetta
unione con Cristo [189].
Infatti nel mistero della Chiesa, la quale
pure è giustamente chiamata madre e vergine,
la beata vergine Maria occupa il primo
posto, presentandosi in modo eminente e
singolare quale vergine e quale madre [190].
Ciò perché per la sua fede ed obbedienza
generò sulla terra lo stesso Figlio di Dio,
senza contatto con uomo, ma adombrata dallo
Spirito Santo, come una nuova Eva credendo
non all'antico serpente, ma, senza alcuna
esitazione, al messaggero di Dio. Diede poi
alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale
primogenito tra i molti fratelli (cfr. Rm
8,29), cioè tra i credenti, alla
rigenerazione e formazione dei quali essa
coopera con amore di madre.
La Chiesa vergine e madre
64. Orbene, la Chiesa contemplando la
santità misteriosa della Vergine, imitandone
la carità e adempiendo fedelmente la volontà
del Padre, per mezzo della parola di Dio
accolta con fedeltà diventa essa pure madre,
poiché con la predicazione e il battesimo
genera a una vita nuova e immortale i figli,
concepiti ad opera dello Spirito Santo e
nati da Dio. Essa pure è vergine, che
custodisce integra e pura la fede data allo
sposo; imitando la madre del suo Signore,
con la virtù dello Spirito Santo conserva
verginalmente integra la fede, salda la
speranza, sincera la carità [191].
La Chiesa deve imitare la virtù di
Maria
65. Mentre la Chiesa ha già raggiunto
nella beatissima Vergine quella perfezione,
che la rende senza macchia e senza ruga
(cfr. Ef 5,27), i fedeli del Cristo si
sforzano ancora di crescere nella santità
per la vittoria sul peccato; e per questo
innalzano gli occhi a Maria, la quale
rifulge come modello di virtù davanti a
tutta la comunità degli eletti. La Chiesa,
raccogliendosi con pietà nel pensiero di
Maria, che contempla alla luce del Verbo
fatto uomo, con venerazione penetra più
profondamente nel supremo mistero
dell'incarnazione e si va ognor più
conformando col suo sposo. Maria infatti, la
quale, per la sua intima partecipazione alla
storia della salvezza, riunisce per cosi
dire e riverbera le esigenze supreme della
fede, quando è fatta oggetto della
predicazione e della venerazione chiama i
credenti al Figlio suo, al suo sacrificio e
all'amore del Padre. A sua volta la Chiesa,
mentre ricerca la gloria di Cristo, diventa
più simile al suo grande modello,
progredendo continuamente nella fede,
speranza e carità e in ogni cosa cercando e
compiendo la divina volontà. Onde anche
nella sua opera apostolica la Chiesa
giustamente guarda a colei che generò il
Cristo, concepito appunto dallo Spirito
Santo e nato dalla Vergine per nascere e
crescere anche nel cuore dei fedeli per
mezzo della Chiesa. La Vergine infatti nella
sua vita fu modello di quell'amore materno
da cui devono essere animati tutti quelli
che nella missione apostolica della Chiesa
cooperano alla rigenerazione degli uomini.
IV. Il culto della beata Vergine nella
Chiesa
Natura e fondamento del culto
66. Maria, perché madre santissima di Dio
presente ai misteri di Cristo, per grazia di
Dio esaltata, al di sotto del Figlio, sopra
tutti gli angeli e gli uomini, viene dalla
Chiesa giustamente onorata con culto
speciale. E di fatto, già fino dai tempi più
antichi, la beata Vergine è venerata col
titolo di « madre di Dio » e i fedeli si
rifugiano sotto la sua protezione,
implorandola in tutti i loro pericoli e le
loro necessità [192].
Soprattutto a partire dal Concilio di Efeso
il culto del popolo di Dio verso Maria
crebbe mirabilmente in venerazione e amore,
in preghiera e imitazione, secondo le sue
stesse parole profetiche: «Tutte le
generazioni mi chiameranno beata, perché
grandi cose mi ha fatto l'Onnipotente» (Lc
1,48). Questo culto, quale sempre è esistito
nella Chiesa sebbene del tutto singolare,
differisce essenzialmente dal culto di
adorazione reso al Verbo incarnato cosi come
al Padre e allo Spirito Santo, ed è
eminentemente adatto a promuoverlo. Infatti
le varie forme di devozione verso la madre
di Dio, che la Chiesa ha approvato,
mantenendole entro i limiti di una dottrina
sana e ortodossa e rispettando le
circostanze di tempo e di luogo, il
temperamento e il genio proprio dei fedeli,
fanno si che, mentre è onorata la madre, il
Figlio, al quale sono volte tutte le cose
(cfr Col 1,15-16) e nel quale «piacque
all'eterno Padre di far risiedere tutta la
pienezza » (Col 1,19), sia debitamente
conosciuto, amato, glorificato, e siano
osservati i suoi comandamenti.
Norme pastorali
67. Il santo Concilio formalmente insegna
questa dottrina cattolica. Allo stesso tempo
esorta tutti i figli della Chiesa a
promuovere generosamente il culto,
specialmente liturgico, verso la beata
Vergine, ad avere in grande stima le
pratiche e gli esercizi di pietà verso di
lei, raccomandati lungo i secoli dal
magistero della Chiesa; raccomanda di
osservare religiosamente quanto in passato è
stato sancito circa il culto delle immagini
di Cristo, della beata Vergine e dei Santi [193].
Esorta inoltre caldamente i teologi e i
predicatori della parola divina ad astenersi
con ogni cura da qualunque falsa
esagerazione, come pure da una eccessiva
grettezza di spirito, nel considerare la
singolare dignità della Madre di Dio [194].
Con lo studio della sacra Scrittura, dei
santi Padri, dei dottori e delle liturgie
della Chiesa, condotto sotto la guida del
magistero, illustrino rettamente gli uffici
e i privilegi della beata Vergine, i quali
sempre sono orientati verso il Cristo,
origine della verità totale, della santità e
della pietà. Sia nelle parole che nei fatti
evitino diligentemente ogni cosa che possa
indurre in errore i fratelli separati o
qualunque altra persona, circa la vera
dottrina della Chiesa. I fedeli a loro volta
si ricordino che la vera devozione non
consiste né in uno sterile e passeggero
sentimentalismo, né in una certa qual vana
credulità, bensì procede dalla fede vera,
dalla quale siamo portati a riconoscere la
preminenza della madre di Dio, e siamo
spinti al filiale amore verso la madre
nostra e all'imitazione delle sue virtù.
V. Maria, segno di certa speranza e di
consolazione per il peregrinante popolo di
Dio
Maria, segno del popolo di Dio
68. La madre di Gesù, come in cielo, in
cui è già glorificata nel corpo e
nell'anima, costituisce l'immagine e
l'inizio della Chiesa che dovrà avere il suo
compimento nell'età futura, così sulla terra
brilla ora innanzi al peregrinante popolo di
Dio quale segno di sicura speranza e di
consolazione, fino a quando non verrà il
giorno del Signore (cfr. 2 Pt 3,10).
Maria interceda per l'unione dei
cristiani
69. Per questo santo Concilio è di grande
gioia e consolazione il fatto che vi siano
anche tra i fratelli separati di quelli che
tributano il debito onore alla madre del
Signore e Salvatore, specialmente presso gli
Orientali, i quali vanno, con ardente
slancio ed anima devota, verso la madre di
Dio sempre vergine per renderle il loro
culto [195].
Tutti i fedeli effondano insistenti
preghiere alla madre di Dio e madre degli
uomini, perché, dopo aver assistito con le
sue preghiere la Chiesa nascente, anche ora,
esaltata in cielo sopra tutti i beati e gli
angeli, nella comunione dei santi interceda
presso il Figlio suo, fin tanto che tutte le
famiglie di popoli, sia quelle insignite del
nome cristiano, sia quelle che ancora
ignorano il loro Salvatore, in pace e
concordia siano felicemente riunite in un
solo popolo di Dio, a gloria della
santissima e indivisibile Trinità.
21 novembre 1964
DAGLI ATTI DEL CONCILIO
ECUMENICO VATICANO II
Notificazioni fatte dall'Ecc.mo
Segretario generale nella congregazione
generale 123.a
È stato chiesto quale debba essere la
qualificazione teologica della dottrina
esposta nello schema sulla Chiesa e
sottoposto alla votazione. La commissione
dottrinale ha dato al quesito questa
risposta: « Come è di per sé evidente, il
testo del Concilio deve sempre essere
interpretato secondo le regole generali da
tutti conosciute ». In pari tempo la
commissione dottrinale rimanda alla sua
dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui
trascriviamo il testo:
«Tenuto conto dell'uso conciliare e del
fine pastorale del presente Concilio, questo
definisce come obbliganti per tutta la
Chiesa i soli punti concernenti la fede o i
costumi, che esso stesso abbia apertamente
dichiarato come tali.
«Le altre cose che il Concilio propone,
in quanto dottrina del magistero supremo
della Chiesa, tutti e singoli i fedeli
devono accettarle e tenerle secondo lo
spirito dello stesso Concilio, il quale
risulta sia dalla materia trattata, sia
dalla maniera in cui si esprime, conforme
alle norme d'interpretazione teologica».
Per mandato dell'autorità superiore viene
comunicata ai Padri una nota esplicativa
previa circa i « modi » concernenti il capo
terzo dello schema sulla Chiesa. La dottrina
esposta nello stesso capo terzo deve essere
spiegata e compresa secondo lo spirito e la
sentenza di questa nota.
16 novembre 1964
NOTA
ESPLICATIVA PREVIA
La commissione ha stabilito di premettere
all'esame dei "modi" le seguenti
osservazioni generali:
1) "Collegio" non si intende in senso «
strettamente giuridico », cioè di un gruppo
di eguali, i quali abbiano demandata la loro
potestà al loro presidente, ma di un gruppo
stabile, la cui struttura e autorità deve
essere dedotta dalla Rivelazione. Perciò
nella risposta al modus 12 si dice
esplicitamente dei Dodici che il Signore li
costituì « a modo di collegio o "gruppo"
(coetus) stabile ». Cfr. anche il modus 53,
c. Per la stessa ragione, per il collegio
dei vescovi si usano con frequenza anche le
parole "ordine" (ordo) o "corpo" (corpus).
Il parallelismo fra Pietro e gli altri
apostoli da una parte, e il sommo Pontefice
e i vescovi dall'altra, non implica la
trasmissione della potestà straordinaria
degli apostoli ai loro successori, né, com'è
chiaro, "uguaglianza" (aequalitatem) tra il
capo e le membra del collegio, ma solo
"proporzionalità" (proportionalitatem) fra
la prima relazione (Pietro apostoli) e
l'altra (papa vescovi). Perciò la
commissione ha stabilito di scrivere nel n.
22 non "medesimo" (eodem) ma "pari" modo.
Cfr. modus 57.
2) Si diventa "membro del collegio" in
virtù della consacrazione episcopale e
mediante la comunione gerarchica col capo
del collegio e con le membra. Cfr. n. 22.
Nella consacrazione è data una
"ontologica" partecipazione ai "sacri
uffici", come indubbiamente consta dalla
tradizione, anche liturgica. Volutamente è
usata la parola "uffici" (munerum), e non
"potestà" (potestatum), perché quest'ultima
voce potrebbe essere intesa di potestà
esercitabile di fatto (ad actum expedita).
Ma perché si abbia tale potestà esercitabile
di fatto, deve intervenire la
"determinazione" canonica o "giuridica"
(iuridica determinatio) da parte
dell'autorità gerarchica. E questa
determinazione della potestà può consistere
nella concessione di un particolare ufficio
o nell'assegnazione dei sudditi, ed è
concessa secondo le norme approvate dalla
suprema autorità. Una siffatta ulteriore
norma è richiesta "dalla natura delle cose",
trattandosi di uffici, che devono essere
esercitati da "più soggetti", che per
volontà di Cristo cooperano in modo
gerarchico. È evidente che questa
"comunione" è stata applicata nella vita
della Chiesa secondo le circostanze dei
tempi, prima di essere per così dire
codificata "nel diritto". Perciò è detto
espressamente che è richiesta la comunione
"gerarchica" col capo della Chiesa e con le
membra. "Comunione" è un concetto tenuto in
grande onore nella Chiesa antica (ed anche
oggi, specialmente in Oriente). Per essa non
si intende un certo vago "sentimento", ma
una "realtà organica", che richiede una
forma giuridica e che è allo stesso tempo
animata dalla carità. La commissione quindi,
quasi d'unanime consenso, stabilì che si
scrivesse: « nella comunione "gerarchica" ».
Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto della
"missione canonica", sotto il n. 24. I
documenti dei recenti romani Pontefici circa
la giurisdizione dei vescovi vanno
interpretati come attinenti questa
necessaria determinazione delle potestà.
3) Il collegio, che non si dà senza il
capo, è detto essere: «anche esso soggetto
di suprema e piena potestà sulla Chiesa
universale ». Ciò va necessariamente
ammesso, per non porre in pericolo la
pienezza della potestà del romano Pontefice.
Infatti il collegio necessariamente e sempre
si intende con il suo capo, "il quale nel
collegio conserva integro l'ufficio di
vicario di Cristo e pastore della Chiesa
universale". In altre parole: la distinzione
non è tra il romano Pontefice e i vescovi
presi insieme, ma tra il romano Pontefice
separatamente e il romano Pontefice insieme
con i vescovi. E siccome il romano Pontefice
e il "capo" del collegio, può da solo fare
alcuni atti che non competono in nessun modo
ai vescovi, come convocare e dirigere il
collegio, approvare le norme dell'azione,
ecc. Cfr. Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è
affidata la cura di tutto il gregge di
Cristo, giudica e determina, secondo le
necessità della Chiesa che variano nel corso
dei secoli, il modo col quale questa cura
deve essere attuata, sia in modo personale,
sia in modo collegiale. Il romano Pontefice
nell'ordinare, promuovere, approvare
l'esercizio collegiale, procede secondo la
propria discrezione, avendo di mira il bene
della Chiesa.
4) Il sommo Pontefice, quale pastore
supremo della Chiesa, può esercitare la
propria potestà in ogni tempo a sua
discrezione, come è richiesto dallo stesso
suo ufficio. Ma il collegio, pur esistendo
sempre, non per questo permanentemente
agisce con azione "strettamente" collegiale,
come appare dalla tradizione della Chiesa.
In altre parole: Non sempre è «in pieno
esercizio», anzi non agisce con atto
strettamente collegiale se non ad intervalli
e "col consenso del capo". Si dice « col
consenso del capo », perché non si pensi a
una "dipendenza", come nei confronti di chi
è "estraneo"; il termine "consenso"
richiama, al contrario, la "comunione" tra
il capo e le membra e implica la necessità
dell'atto", il quale propriamente compete al
capo. La cosa è esplicitamente affermata nel
n. 22 ed è ivi spiegata. La formula negativa
"se non" (nonnisi) comprende tutti i casi,
per cui è evidente che le "norme" approvate
dalla suprema autorità devono sempre essere
osservate. Cfr. modus 84.
Dovunque appare che si tratta di "unione"
dei vescovi "col loro capo", e mai di azione
dei vescovi "indipendentemente" dal papa. In
tal caso, infatti, venendo a mancare
l'azione del capo, i vescovi non possono
agire come collegio, come appare dalla
nozione di "collegio". Questa gerarchica
comunione di tutti i vescovi col sommo
Pontefice è certamente abituale nella
tradizione.
N. B.- Senza la comunione gerarchica
l'ufficio sacramentale ontologico, che si
deve distinguere dall'aspetto canonico
giuridico, "non può" essere esercitato. La
commissione ha pensato bene di non dover
entrare in questioni di "liceità" e
"validità", le quali sono lasciate alla
discussione dei teologi, specialmente per
ciò che riguarda la potestà che di fatto è
esercitata presso gli Orientali separati e
che viene spiegata in modi diversi.
+ PERICLE FELICI
Arcivescovo tit. di Samosata
Segretario generale del Concilio
NOTE
[1]
Cf. S. CIPRIANO, Epist. 64,4: PL 3,
1017; CSEL (HARTEL) IIIB, p. 720. S. ILARIO
DI POITIERS, In Mt. 23,6: PL 9, 1047.
S. AGOSTINO, passim. S. CIRILLO
D’ALESS., Glaph. in Gen. 2,10: PG 69,
110A.
[2]
S. GREGORIO M., Hom. in Evang. 19, 1:
PL 76, 1154B. Cf. S. AGOSTINO, Serm.
341, 9, 11: PL 39, 1499s. S. GIOV.
DAMASCENO, Adv. Iconocl. 11: PG 96,
1357.
[3]
Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 24, 1:
PG 7, 966B; HARVEY 2, 131, ed. SAGNARD,
Sources Chr., p. 398.
[4]
S. CIPRIANO, De Orat. Dom. 23: PL 4, 553;
HARTEL IIIA, p. 285. S. AGOSTINO, Serm. 71,
20, 33: PL 38, 463s. S. GIOV. DAMASCENO,
Adv. Iconocl. 12: PG 96, 1358D.
[5]
Cf. ORIGENE, In Mt. 16,21: PG 13,
1443C. TERTULLIANO, Adv. Marc. 3, 7:
PL 2, 357C; CSEL 47, 3, p. 386. Quanto ai
documenti liturgici, cf. Sacramentarium
Gregorianum: PL 78, 160B; oppure C.
MOHLBERG, Liber Sacramentorum Romanae
Ecclesiae, Romae 1960, p. 111, XC: “O
Dio, che edifichi la tua eterna dimora in
tutta l’assemblea dei santi...”. Inno
Urbs Ierusalem beata nel Breviario
monastico e Coelestis urbs Ierusalem
nel Breviario romano. [Nella Dedicazione
della Chiesa. La Liturgia delle Ore ha
ripreso il testo monastico, che è quello
originale].
[6]
Cf. S. TOMMASO, Summa Theol. III, q.
62, a. 5, ad 1.
[7]
Cf. PIO XII, Enc.
Mystici Corporis, 29 giugno 1943:
AAS 35 (1943), p. 208.
[8]
Cf. LEONE XIII, Enc. Divinum illud, 9
maggio 1897: ASS 29 (1896-97), p. 650. PIO
XII, Enc.
Mystici Corporis, l.c. [nota prec.],
pp. 219-220: Dz 2288 (3808) [Collantes
7.363]. S. AGOSTINO, Serm. 268, 2: PL
38, 1232, et alibi. S. GIOV. CRISOSTOMO, In
Eph., Hom. 9, 3: PG 62, 72. DIDIMO
D’ALESS., Trin. 2, 1: PG 39, 449s. S.
TOMMASO, In Col. 1,18, lect. 5: ed.
Marietti, II, n. 46: “Come un unico corpo
viene costituito dall’unione con l’anima,
così la Chiesa dall’unione con lo
Spirito...”.
[9]
Cf. LEONE XIII, Enc. Sapientiae
christianae, 10 genn. 1890: ASS 22
(1889-90), p. 392; ID., Enc. Satis
cognitum, 29 giugno 1896: AAS 28
(1895-96), pp. 710 e 724ss. PIO XII, Enc.
Mystici Corporis, l.c. [nota 7], pp.
199-200.
[10]
Cf. PIO XII, Enc.
Mystici Corporis, l.c. [nota 7], p.
221ss; ID., Enc. Humani generis, 12 ag.
1950: AAS 42 (1950), p. 571.
[11]
Cf. LEONE XIII, Enc. Satis cognitum,
l.c. [nota 9], p. 713.
[12]
Cf. Symbolum Ap.: Dz 6-9 (10-13)
[Collantes 0.501-02]; Symb. Nic.-Const.:
Dz 86 (150) [Collantes 0.509]; cf. Prof.
fidei Trid.: Dz 994 e 999 (1862 e 1868)
[Collantes 0.518 e 0.525].
[13]
E detta “Santa (cattolica apostolica) Romana
Chiesa” nella Prof. fidei Trid., l.c.
[nota prec.] e nel CONC. VAT. I, Cost. Dogm.
sulla fede cattolica Dei Filius: Dz
1782 (3001) [Collantes 3.018].
[14]
S. AGOSTINO, De civ. Dei, XVIII, 51,
2: PL 41, 614.
[15]
Cf. S. CIPRIANO, Epist. 69,6: PL 3,
1142B; HARTEL 3B, p. 754: “sacramento
inseparabile di unità”.
[16]
Cf. PIO XII, Disc. Magnificate Dominum, 2
nov. 1954: AAS 46 (1954), p. 669; Encicl.
Mediator Dei, 20 nov. 1947: AAS 39 (1947),
p. 555 [Collantes 7.390].
[17]
Cf. PIO XI, Encicl.
Miserentissimus Redemptor, 8 maggio
1928: AAS 20 (1928), p. 171s. [Collantes
4.113]. PIO XII, Disc. Vous nous avez,
22 sett. 1956: AAS 48 (1956), p. 714.
[18]
Cf. S.
TOMMASO, Summa Theol. III, q. 63, a.
2.
[19]
Cf. S.
CIRILLO DI GERUS., Catech. 17, sullo
Spirito S., II, 35-37: PG 33, 1009-1012;
NIC. CABASILAS, De vita in Christo,
lib. III, sull’utilit del crisma: PG 150,
569-580. S. TOMMASO, Summa Theol.
III, q. 65, a. 3 e q. 72, a. 1 e 5.
[20]
Cf.
Pio XII, Encicl.
Mediator Dei, 20 nov. 1947: AAS 39
(1947), specialmente p. 552s. [Collantes
9.306s].
[21]
1
Cor 7,7: "Ciascuno ha il proprio
dono (idion charisma) da Dio, chi in un
modo, chi in un altro". Cf. S. AGOSTINO,
De Dono Persev., 14, 37: PL 45, 1015s.:
"Non dono di Dio soltanto la continenza, ma
anche la castit dei coniugati".
[22]
S. AGOSTINO, De Praed. Sanct. 14,27:
PL 44, 980.
[23]
S. GIOV. CRISOSTOMO, In Io., Hom. 65,
1: PG 59, 361.
[24]
Cf. S.
IRENEO, Adv. Haer. III, 16, 6; III,
22, 1-3: PG 7, 925C-926A e 955C-958A; HARVEY
2, 87s. e 120-123; SAGNARD, ed. Sources
Chr., pp. 290-292 e 372ss.
[25]
Cf. S. IGNAZIO M., Ad Rom., Praef.:
ed. FUNK I, 252.
[26]
CF. S.
AGOSTINO, Bapt c. Donat. V, 28, 39:
PL 43, 197: "E del tutto chiaro che quando
si dice: dentro e fuori la Chiesa, si allude
al cuore, non al corpo". Cf. ib. III,
19, 26: col. 152; V, 18, 24: col. 189; In
Io., Tr. 61, 2: PL 35, 1800, et al.
spesso.
[27]
Lc 12,48: “A chiunque fu dato molto,
molto sarà chiesto”. Cf. Mt 5,19-20;
7,21-22; 25,41-46; Gc 2,14.
[28]
Cf.
LEONE XIII, Lett. Apost. Praeclara
gratulationis, 20 giugno 1894: ASS 26
(1893-94), p. 707.
[29]
Cf.
LEONE XIII, Encicl. Satis cognitum,
29 giugno 1896: ASS 28 (1895-96), p. 738;
Encicl. Caritatis studium, 25 lug.
1898: ASS 31 (1898-1899), p. 11. PIO XII,
Messaggio radiof.
Nell’alba, 24 dic. 1941:
AAS 34 (1942), p. 21.
[30]
Cf.
PIO XI, Encicl.
Rerum Orientalium, 8 sett. 1928: AAS
20 (1928), p. 287. PIO XII, Encicl.
Orientalis Ecclesiae, 9 apr. 1944:
AAS 36 (1944), p. 137.
[32]
Cf. Istr. della S. S. C. del S. Uffizio, 20
dic. 1949: AAS 42 (1950), p. 142.
[32]
Cf. S.
TOMMASO, Summa Theol. III, q. 8, a.
3, ad I.
[33]
Cf. Lett. della S. S. C. del S. Uffizio
all’Arciv. di Boston: Dz 3869-72 [Collantes
7.043-45]
[34]
Cf. EUSEBIO DI CES., Praeparatio
Evangelica, I, 1: PG 21, 28AB.
[35]
Cf.
BENEDETTO XV, Lett. Apost. Maximum illud:
AAS 11 (1919), p. 440, specialmente p.
451ss. PIO XI, Encicl.
Rerum Ecclesiae: AAS 18 (1926), pp.
68-69. PIO XII, Encicl.
Fidei Donum, 21 apr. 1957: AAS 49
(1957), pp. 236-237.
[36]
Cf.
Didach , 14: ed. FUNK I, p. 32. S.
GIUSTINO, Dial. 41: PG 6, 564. S.
IRENEO, Adv. Haer. IV, 17, 5: PG 7,
1023; HARVEY, 2, p. 199s. CONC. DI TRENTO,
Sess. 22, cap. I: Dz 939 (1742) [Collantes
9.174].
[37]
Cf.
CONC. VAT. I, Cost. dogm. sulla Chiesa di
Cristo Pastor aeternus: Dz 1821
(3050s.) [Collantes 7.176].
[38]
Cf.
CONC. DI FIRENZE, Decretum pro Graecis:
Dz 694 (1307) [Collantes 7.159] e CONC. VAT.
I, Cost. dogm. sulla Chiesa di Cristo
Pastor aeternus: Dz 1826 (3059)
[Collantes 7.184].
[39]
Cf.
Liber Sacramentorum di S. GREGORIO,
pref. nelle feste di S. Mattia e di S.
Tommaso: PL 78, 51 e 152; cf. Cod. Vat. lat.
3548, f. 18. S. ILARIO, In Ps. 67,10:
PL 9, 450; CSEL 22, p. 286. S. GIROLAMO,
Adv. Iovin. 1, 26: PL 23, 247A. S.
AGOSTINO, In Ps. 86, 4: PL 37, 1103.
S. GREGORIO M., Mor. in Iob XXVIII,
V: PL 76, 455-456. PRIMASIO, Comm. in
Apoc. V: PL 68, 924BC. PASCASIO RADB.,
In Mt. L. VIII, cap. 16: PL 120,
561C. Cf. LEONE XIII, Lett. Et sane,
17 dic. 1888: ASS 21 (1888), p. 321.
[40]
Cf. At 6,2-6; 11,30; 13,1; 14,23;
20,17; 1 Ts 5,12-13; Fil 1,1;
Col 4,11 e passim.
[41]
Cf. At 20,25-27; 2 Tm 4,6s da
confr. con 1 Tm 5,22; 2 Tm
2,2; Tt 1,5; S. CLEMENTE ROM., Ad
Cor. 44, 3: ed. FUNK I, p. 156.
[42]
Cf. S.
CLEMENTE ROM., Ad Cor. 44,2: ed. FUNK
I, 154s.
[43]
Cf.
TERTULLIANO, Praescr. Haer. 32: PL 2,
52s; S. IGNAZIO M., passim.
[44]
Cf. TERTULLIANO, Praescr. Haer. 32:
PL 2, 53.
[45]
Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 3,
1: PG 7, 848A; HARVEY 2, 8; SAGNARD, p.
100s: “manifestata”.
[46]
Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 2, 2:
PG 7, 847; HARVEY 2, 7; SAGNARD, p. 100: “è
custodita”; cf. ib. IV, 26, 2: col. 1053;
HARVEY 2, 236, e IV, 33, 8: col. 1077:
HARVEY 2, 262.
[47]
S. IGNAZIO M., Philad., Praef: ed.
FUNK I, p. 264.
[48]
S. IGNAZIO M., Philad., 1,1; Magn.
6,1: ed. FUNK I, 264 e 234.
[49]
S. CLEMENTE ROM., l.c. [nota 6], 42, 3-4;
44, 3-4; 57, 1-2: ed. FUNK I, 152, 156,
171s; S. IGNAZIO M., Philad. 2;
Smyrn. 8; Magn. 3; Trall.
7: ed. FUNK I, p. 265s, 282, 232, 246s ecc.;
S. GIUSTINO, Apol. I, 65: PG 6,428;
S. CIPRIANO, Epist., passim.
[50]
Cf. LEONE XIII, Encicl. Satis cognitum,
29 giug. 1896: ASS 28 (1895-96), p. 732.
[51]
Cf.
CONC. DI TRENTO, Decr. De sacr. Ordinis,
cap. 4: Dz 960 (1768) [Collantes 9.293];
CONC. VAT. I, Cost. dogm. I sulla Chiesa di
Cristo Pastor aeternus, cap. 3: Dz
1828 (3061) [Collantes 7.186]. PIO XII,
Encicl.
Mystici Corporis, 29 giug. 1943: AAS
35 (1943), pp. 209 e 212 [Dz 3804; Collantes
7.200]. CIC can. 329 § 1 [nel nuovo Codice
can.
375].
[52]
Cf.
LEONE XIII, Lett. Et sane, 17 dic.
1888: ASS 21 (1888), p. 321s.
[53]
Cf. S.
LEONE M., Serm. 5, 3: PL 54, 154.
[54]
Il CONC. DI TRENTO, Sess. 23, cap. 3, cita
le parole di 2Tm 1,6-7 per dimostrare che
l’Ordine è un vero sacramento: Dz 959 (1766)
[Collantes 9.290].
[55]
Nella
Trad. Apost. 3, ed. BOTTE, Sources
Chr., pp. 27-30, al Vescovo viene
attribuito "il primato del sacerdozio". Cf.
Sacramentarium Leonianum, ed. C.
MOHLBERG, Sacramentarium Veronense,
Romae 1955, p. 119: "al ministero del sommo
sacerdozio... Compi nei tuoi sacerdoti il
culmine del tuo mistero...". IDEM, Liber
Sacramentorum Romanae Ecclesiae, Romae
1960, pp. 121-122: "Conferisci loro,
Signore, la cattedra episcopale per reggere
la tua Chiesa e tutto il popolo". Cf. PL 78,
224.
[56]
Cf. Trad. Apost. 2: ed. BOTTE, p. 27.
[57]
Cf. il
CONC. DI TRENTO, che nella Sess. 23, cap. 4
insegna che il sacramento dell’Ordine
imprime un carattere indelebile: Dz 960
(1767) [Collantes 9.291]. Cf. GIOVANNI
XXIII, Disc. Iubilate Deo, 8 maggio
1960: AAS 52 (1960), p. 466. PAOLO VI,
Omelia nella Bas. Vaticana, 20 ott. 1963:
AAS 55 (1963), p. 1014.
[58]
S.
CIPRIANO, Epist. 63, 14: PL 4, 386;
HARTEL, IIIB, p. 713: "Il sacerdote compie
veramente le funzioni di Cristo". S. GIOV.
CRISOSTOMO, In 2 Tim., Hom. 2, 4: PG
62, 612: Il sacerdote "symbolon" di Cristo.
S. AMBROGIO, In Ps. 38, 25-26: PL 14,
1051-52: CSEL 64, 203-204. AMBROSIASTER,
In 1 Tim. 5,19: PL 17, 479C e In Eph.
4, 11-12, col. 387C. TEODORO DI MOPS.,
Hom. Catech. XV, 21 e 24; ed. TONNEAU,
pp. 497 e 503. ESICHIO DI GERUS., In
Lev., L. 2, 9, 23: PG 93, 894B.
[59]
Cf.
EUSEBIO, Hist. Eccl., V, 24, 10: GCS
II, 1, p. 495; ed. BARDY, Sources Chrét.,
II, p. 69. DIONIGI, in EUSEBIO, ib.
VII, 5, 2: GCS II, 2, p. 638s; BARDY, II, p.
168s.
[60]
Sugli
antichi Concili cf. EUSEBIO, Hist. Eccl.
V, 23-24; GCS II, 1, p. 488ss; BARDY, II, p.
66ss e passim. CONC. DI NICEA, can. 5: COD
p. 7
[61]
Cf. TERTULLIANO, De Ieiunio, 13: PL
2, 972B; CSEL 20, p. 292, lin. 13-16.
[62]
Cf. S. CIPRIANO, Epist. 56, 3: HARTEL IIIB,
p. 650; BAYARD, p. 154.
[63]
Cf. la relazione ufficiale ZINELLI al CONC.
VAT I: MANSI 52, 1109C.
[64]
Cf. CONC. VAT I, Schema della Cost. dogm. II
De Ecclesia Christi, c. 4:[176][176]NSI
53, 310. Cf. la relazione KLEUTGEN sullo
Schema riformato: MANSI 53,321B-322B e la
dichiarazione ZINELLI: MANSI 52, 1110A. Vedi
anche S. LEONE M., Serm. 4,3: PL 54, 151A.
[65]
Cf. CIC, can. 222 e 227 [nel nuovo Codice
can.
338].
[66]
Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Pastor
aeternus: Dz 1821 (3050s) [Collantes
7.176].
[67]
Cf. S. CIPRIANO, Epist. 66, 8: HARTEL
III, 2, p. 733: “Il Vescovo nella Chiesa e
la Chiesa nel Vescovo”.
[68]
Cf. S. CIPRIANO, Epist 55,24: HARTEL,
p. 642, lin. 13: “Un’unica Chiesa in tutto
il mondo divisa in molte membra. Epist.
36, 4: HARTEL, p. 575, lin. 20-21.
[69]
Cf. PIO XII, Encicl.
Fidei Donum, 21 apr. 1957: AAS 49
(1957), p. 237.
[70]
Cf. S. ILARIO DI POIT., In Ps. 14,3:
PL 9, 206; CSEL 22, p. 86. S. GREGORIO M.,
Moral. IV, 7, 12: PL 75, 643C. PSEUDO
BASILIO, In Is. 15, 296: PG 30, 637C.
[71]
Cf. S.
CELESTINO, Epist. 18, 1-2, al Conc.
di Ef.: PL 50, 505AB; SCHWARTZ, Acta
Conc. Oec. I, 1, 1, p. 22. Cf. BENEDETTO
XV, Lett. Apost. Maximum illud: AAS
11 (1919), p. 440. PIO XI, Encicl.
Rerum Ecclesiae, 28 febbr. 1926: AAS
18 (1926), p. 69. PIO XII, Encicl.
Fidei Donum, l.c. [nota33].
[72]
Cf.
LEONE XIII, Encicl.
Grande munus, 30 sett. 1880: ASS 13
(1880), p. 145. Cf. CIC, can. 1327; can.
1350 § 2 [nel nuovo Codice: cf. can.
762].
[73]
Sui
diritti delle Sedi patriarcali cf. CONC. DI
NICEA, can. 6 per Alessandria e Antiochia, e
can. 7 per Gerusalemme: Conc. Oec. Decr.,
p. 8 CONC. LATER. IV, anno 1215, Costit.
V: De dignitate Patriarcharum: ibid.
p. 212 [Dz 811]. CONC. DI FERR.-FIR.:
ibid., p. 504 [Dz 1307-08; Collantes
7.159-60].
[74]
Cf.
Cod. Iuris Can., pro Eccl. Orient.: cc.
216-314 sui Patriarchi; cc. 324-339 sugli
Arcivescovi maggiori; cc. 362-391 sugli
altri dignitari; in specie c. 238 § 3; 216;
240; 251; 255: sulla nomina dei Vescovi da
parte del Patriarca.
[75]
Cf. CONC. DI TRENTO, Decr. De
reform., Sess. V, c. 2, n. 9 e Sess.
XXIV, can 4: Conc. Oec. Decr., pp.
645 e 739.
[76]
Cf.
CONC. VAT. I, Cost. dogm. Dei Filius,
3: Dz 1792 (3011) [Collantes 1.070]. Cf. la
nota aggiunta allo Schema I De Eccl.
(desunta da S. ROB. BELLARMINO): MANSI 51,
579C; e lo Schema riformato della Cost. II
De Ecclesia Christi, con il commento
KLEUTGEN: MANSI 53, 313AB. PIO IX, Lett.
Tuas libenter: Dz 1683 (2879) [Collantes
7.174].
[77]
Cf. CIC, cann. 1322-1323 [nel nuovo Codice:
cann.
747-750].
[78]
Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Pastor
Aeternus: Dz 1839 (3074) [Collantes
7.198].
[79]
Cf. la spiegazione GASSER al CONC. VAT. I:
MANSI 52, 1213AC.
[80]
Cf. la spiegazione GASSER al CONC. VAT. I:
MANSI 1214A.
[81]
Cf. la spiegazione GASSER al CONC. VAT. I:
MANSI 1215CD, 1216-1217A.
[82]
Cf. la spiegazione GASSER al CONC. VAT. I:
MANSI 1213.
[83]
Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Pastor
Aeternus, 4: Dz 1836 (3070).
[84]
Orazione della consacrazione episcopale nel
rito bizantino: Euchologion to mega,
Romae 1873, p. 139.
[85]
Cf. S. IGNAZIO M., Smyrn. 8, 1: ed. FUNK I,
p. 282.
[86]
Cf. At 8,1; 14,22-23; 20,17 e passim.
[87]
Orazione mozarabica: PL 96, 759B.
[88]
Cf. S. IGNAZIO M., Smyrn. 8, 1: ed.
FUNK I, p. 282.
[89]
S. TOMMASO, Summa Theol. III, q. 73,
a. 3.
[90]
Cf. S.
AGOSTINO, C. Faustum, 12, 20: PL 42,
265; Serm. 57, 7: PL 38, 389, ecc
[91]
S. LEONE M., Serm. 63, 7: PL 54,
357C.
[92]
Traditio Apostolica di Ippolito, 2-3:
ed. BOTTE, pp. 26-30.
[93]
Cf. il
testo dell’esame all’inizio della
consacrazione episcopale, e l’Orazione
alla fine della Messa della consacrazione
stessa, dopo il Te Deum.
[94]
BENEDETTO XIV, Br. Romana Ecclesia, 5
ott. 1752, § 1: Bullarium Benedicti XIV,
t. IV, Romae 1758, 21: "Il Vescovo
l’immagine di Cristo e compie le sue
funzioni". PIO XII, Encicl.
Mystici Corporis, l.c. [nota 15], p.
211: "I singoli nutrono e reggono i singoli
greggi di Cristo loro assegnati" [Dz 3804;
Collantes 7.200].
[95]
Cf.
LEONE XIII, Encicl. Satis cognitum,
29 giugno 1896: ASS 28 (1895-96), p. 732.
IDEM, Lett. Officio sanctissimo, 22
dic. 1887: ASS 20 (1887), p. 264. PIO IX,
Lett. Apost. ai Vescovi della Germania, 12
marzo 1875, e Disc. Concist., 15 marzo 1875:
Dz 3112-3117, solo nella nuova edizione.
[96]
Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Pastor
aeternus, 3: Dz 1828 (3061) [Collantes
7.186]. Cf. Relazione ZINELLI: MANSI 52,
1114D.
[97]
Cf. S. IGNAZIO M., Ad Ephes. 5, 1:
ed. FUNK I, p. 216.
[98]
Cf. S. IGNAZIO M., Ad Ephes. 6, 1:
ed. FUNK I, p. 218.
[99]
Cf.
CONC. DI TRENTO, De sacr. Ordinis,
cap. 2: Dz 958 (1765) [Collantes 9.289], e
can. 6: Dz 966 (1776) [Collantes 9.301].
[100]
Cf. INNOCENZO I, Epist. ad Decentium:
PL 20, 554A: MANSI 3, 1029: Dz 98 (215)
[Collantes 9.075]: “I Presbiteri, pur
essendo secondi nel sacerdozio, non hanno
però la pienezza del pontificato”. S.
CIPRIANO, Epist. 61,3: ed. HARTEL, p. 696.
[101]
Cf. CONC. DI TRENTO, l.c. [nota 63]: Dz
956a-968 (1763-1778) [Collantes 9.2889.303]
e in specie can. 7: Dz 967 (1777) [Collantes
9.300]. PIO XII, Cost. Apost. Sacramentum
Ordinis: Dz 2301 (3857-61) [Collantes
9.314-17].
[102]
Cf. INNOCENZO I, l.c. [nota 64]. S. GREGORIO
NAZ., Apol. II, 22: PG 35,432B. PS. DIONIGI,
Eccl. Hier., 1, 2: PG 3, 372D.
[103]
Cf. CONC. DI TRENTO, Sess. 22: Dz 940 (1743)
[Collantes 9.175]. PIO XII, Encicl.
Mediator Dei, 20 nov. 1947: AAS 39
(1947), p. 553: Dz 2300 (3850) [Collantes
9.308].
[104]
Cf. CONC. DI TRENTO, Sess. 22: Dz 938
(1739-40) [Collantes 9.171-72]; CONC. VAT.
II, Cost. sulla Sacra Liturgia
Sacrosanctum Concilium, n. 7 e n.
47: AAS 56 (1964), pp. 100-113 [pp. 21 e
45ss].
[105]
Cf. PIO XII, Encicl.
Mediator Dei, l.c. alla nota 67.
[106]
Cf. S. CIPRIANO, Epist. 11, 3: PL 4,
242B; HARTEL II, 2, p. 497.
[107]
Cf. Pontificale Romanum,
L’ordinazione dei Presbiteri,
all’imposizione dei paramenti.
[108]
Cf. Pontificale Romanum,
L’ordinazione dei Presbiteri, prefazione.
[109]
Cf. S. IGNAZIO M., Philad. 4: ed.
FUNK I, p. 266. S. CORNELIO I, in S.
CIPRIANO, Epist. 48, 2; HARTEL III,
2, p. 610.
[110]
Constitutiones Ecclesiae Aegyptiacae,
III, 2: ed. FUNK, Didascalia, II, p.
103; Statuta Eccl. Ant. 37-41: MANSI
3, 954.
[111]
S.
POLICARPO, Ad Phil. 5, 2: ed. FUNK I,
p. 300: Cristo detto "fatto diacono di
tutti". Cf. Didach 15, 1: ib.,
p. 32. S. IGNAZIO M., Trall. 2,3:
ib., p. 242; Constitutiones
Apostolorum, 8, 28, 4: ed. FUNK,
Didascalia, I, p. 530.
[112]
S. AGOSTINO, Serm. 340, 1: PL 38,
1483.
[113]
Cf. PIO XI, Encicl.
Quadragesimo anno, 15 maggio 1931:
AAS 23 (1931), p. 221s. PIO XII, Disc. De
quelle consolation, 14 ott. 1951: AAS 43
(1951), p. 790s.
[114]
Cf. PIO XII, DISC. Six ans se sont
écoulés, 5 ott. 1957: AAS 49 (1957), p.
927.
[115]
Messale romano, dal prefazio della
festa di Cristo Re.
[116]
Cf.
LEONE XIII, Encicl.
Immortale Dei, 1° nov. 1885: ASS 18
(1885), p. 166ss. IDEM, Encicl.
Sapientiae Christianae, 10 genn. 1890:
ASS 22 (1889-90), p. 397ss. PIO XII, Disc.
Alla vostra filiale, 23 marzo 1958:
AAS 50 (1958), p. 220: "la legittima sana
laicità dello Stato".
[117]
Cf. CIC, can. 682 [nel nuovo Codice:
can. 213].
[118]
Cf.
PIO XII, Disc. De quelle consolation,
l.c. [nota 2], p. 789: "Nelle battaglie
decisive, talvolta dal fronte che partono le
pi felici iniziative...". IDEM, Disc.
L’importance de la presse
catholique, 17 febbr. 1950: AAS 42
(1950), p. 256.
[119]
Cf. 1 Ts 5,19 e 1 Gv 4,1.
[120]
Epist. ad Diognetum, 6: ed. FUNK I, p.
400. Cf. S. GIOV. CRISOSTOMO, In Mt., Hom.
46 (47), 2: PG 58, 478, sul fermento nella
pasta.
[121]
Messale Romano, Gloria a Dio. Cf. Lc
1,35; Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69 (ho hagios
tou Theou); At 3,14; 4,27.30; Eb 7,26; 1Gv
2,20; Ap 3,7.
[122]
Cf.
ORIGENE, Comm. Rom. 7,7: PG 14,
1122B. PS. MACARIO, De Oratione, 11:
PG 34, 861AB. S. TOMMASO, Summa Theol.
II-II, q. 184, a. 3.
[123]
Cf. S.
AGOSTINO, Retract. II, 18: PL 32,
637s. PIO XII, Encicl.
Mystici Corporis, 29 giugno 1943:
AAS 35 (1943), p. 225.
[124]
Cf.
PIO XI, Encicl.
Rerum omnium, 26 genn. 1923: AAS 15
(1923), pp. 50 e 59-60 [Collantes 7.319-20];
Encicl.
Casti Connubii, 31 dic. 1930: AAS 22
(1930), p. 548. PIO XII, Cost. Apost.
Provida Mater, 2 febbr. 1947: AAS 39
(1947), p. 117. Disc. Annus sacer, 8
dic. 1950: AAS 43 (1951), pp. 27-28. Disc.
Nel darvi, 1° lug. 1956: AAS 48
(1956), p. 574s.
[125]
Cf. S. TOMMASO, Summa Theol. II-II,
q. 184, a. 5 e 6; De perf. vitae spir.,
c. 18. ORIGENE, In Is., Hom. 6, 1: PG
13, 239.
[126]
Cf. S. IGNAZIO M., Magn. 13, 1: ed.
FUNK I, p. 241.
[127]
Cf. S.
PIO X, Esort.
Haerent animo, 4 ag. 1908: ASS 41
(1908), p. 560s. CIC, can. 124 [nel nuovo
Codice
can. 276]. PIO XI, Encicl.
Ad catholici sacerdotii, 20 dic.
1935: AAS 28 (1936), p. 22.
[128]
Cf. Pontificale Romanum, Ordinazione
dei Presbiteri, esortazione iniziale.
[129]
Cf. S. IGNAZIO M., Trall. 2, 3: ed.
FUNK I, p. 244.
[130]
Cf.
PIO XII, Disc. Sous la maternelle
protection, 9 dic. 1957: AAS 50 (1958),
p. 36.
[131]
Cf.
PIO XI, Encicl.
Casti Connubii, 31 dic. 1930: AAS 22
(1930), p. 548s. S. GIOV. CRISOSTOMO, In
Ephes., Hom. 20, 2: PG 62, 136ss.
[132]
Cf. S.
AGOSTINO, Enchir. 121, 32: PL 40,
288. S. TOMMASO, Summa Theol. II-II,
q. 184 a. 1. PIO XII, Esort. Apost.
Menti nostrae, 23 sett. 1950: AAS 42
(1950), p. 660 [Collantes 7.321].
[133]
Sui
consigli in genere cf. ORIGENE, Comm.
Rom. X, 14: PG 14,1275B. S. AGOSTINO,
De S. Virginitate 15,15: PL 40, 403. S.
TOMMASO, Summa Theol. I-II, q. 100,
a. 2c (alla fine); II-II, q. 44, a. 4, ad 3.
[134]
Sull’eccellenza della verginit consacrata
cf. TERTULLIANO, Exhort. Cast. 10: PL
2, 925C. S. CIPRIANO, Hab. Virg. 3 e
22: PL 4, 443B e 461As. S. ATANASIO (?),
De Virg.: PG 28, 252ss. S. GIOV.
CRISOSTOMO, De Virg.: PG 48, 533ss.
[135]
Sulla povertà spirituale cf. Mt 5,3 e
19,21; Mc 10,21; Lc 18,22;
sull’obbedienza si propone l’esempio di
Cristo; Gv 4,34 e 6,38; Fil
2,8-10; Eb 10,5-7. Abbondano i Padri
e i fondatori degli ordini religiosi.
[136]
Sull’effettiva pratica dei consigli, che non
viene imposta a tutti, cf. S. GIOV.
CRISOSTOMO, In Mt., Hom. 7,7: PG 57,
81s. S. AMBROGIO, De Viduis 4,23: PL
16, 241s.
[137]
Cf.
ROSWEYDE, Vitae Patrum, Antverpiae
1628. Apophtegmata Patrum: PG 65.
PALLADIO, Historia Lausiaca: PG 34,
995ss: ed. C. BUTLER, Cambridge 1898 (1904).
PIO XI, Cost. Apost. Umbratilem, 8
lug. 1924: AAS 16 (1924), pp. 386-387. PIO
XII, Disc. Nous sommes heureux, 11
apr. 1958: AAS 50 (1958), p. 283.
[138]
Cf.
PAOLO VI, Disc. Magno gaudio, 23
maggio 1964: AAS 56 (1964), p. 566.
[139]
Cf.
CIC, cann. 487 e 488, 4o [nel nuovo Codice:
cann.
573 e 588]. PIO XII, DISC. Annus
sacer, 8 dic. 1950: AAS 43 (1951), p.
27s. PIO XII, Cost. Apost.
Provida Mater, 2 febbr. 1947: AAS 39
(1947), p. 120ss.
[140]
Cf. PAOLO VI, l.c. [nota 2], p. 567.
[141]
Cf. S.
TOMMASO, Summa Theol. II-II, q. 184,
a. 3 e q. 188, a. 2. S. BONAVENTURA, Opusc.
XI, Apologia Pauperum, c. 3, 3: ed.
Opera, Quaracchi, t. 8, 1898, p. 245a.
[142]
Cf.
CONC. VAT. I, Schema De Ecclesia Christi,
cap. XV, e Annot. 48: MANSI 51, 549s e 619s.
LEONE XIII, Lett. Au milieu des
consolations, 23 dic. 1900: ASS 33
(1900-01), p. 361. PIO XII, Cost. Apost.
Provida Mater, l.c. [nota 3], p.
114s.
[143]
Cf.
LEONE XIII, Cost. Romanos Pontifices,
8 maggio 1881: ASS 13 (1880-81), p. 483. PIO
XII, Disc. Annus sacer, 8 dic. 1950:
AAS 43 (1951), p. 28s.
[144]
Cf.
PIO XII, Disc. Annus sacer, l.c.
[nota prec.], p. 28. PIO XII, Cost. Apost.
Sedes Sapientiae, 31 maggio 1956: AAS
48 (1956), p. 355. PAOLO VI, Disc. Magno
gaudio, 23 maggio 1964: AAS 56 (1964),
pp. 570-571.
[145]
Cf. PIO XII, Encicl.
Mystici Corporis, 29 giugno 1943:
AAS 35 (1943), p. 214s.
[146]
Cf.
PIO XII, Disc. Annus sacer, l.c.
[nota 7], p. 30. Disc. Sous la maternelle
protection, 9 dic. 1957: AAS 50 (1958),
p. 39s.
[147]
CONC. DI FIRENZE, Decretum pro Graecis:
Dz 693 (1305) [Collantes 0.023].
[148]
Oltre ai documenti più antichi contro
qualunque forma di evocazione spiritistica
da Alessandro IV (27 sett. 1258) in poi, cf.
Encicl. della S. S. C. del S. Uffizio De
magnetismi abusu, 4 ag. 1856: ASS 1
(1865), pp. 177-178; Dz 1653-54 (2823-25);
risposta della S. S. C. del S. Uffizio del
24 apr. 1917: AAS 9 (1917), p. 268; Dz 2182
(3642).
[149]
Si veda l’esposizione sintetica di questa
dottrina paolina in: PIO XII, Encicl.
Mystici Corporis: AAS 35 (1943), p.
200 e passim.
[150]
Cf.
per es. S. AGOSTINO, Enarr. in Ps.
85, 24: PL 37, 1099. S. GIROLAMO, Liber
contra Vigilantium, 6: PL 23, 344. S.
TOMMASO, In IV Sent., d. 45, q. 3, a.
2. S. BONAVENTURA, In IV Sent. d. 45,
a. 3, q. 2; ecc.
[151]
Cf. PIO XII, Encicl.
Mystici Corporis AAS 35 (1943), p.
245.
[152]
Cf. parecchie iscrizioni nelle Catacombe
romane.
[153]
Cf.
GELASIO I, Decretale De libris
recipiendis, 3: PL 59, 160; Dz 165
(353).
[154]
Cf. S.
METODIO, Symposion, VII, 3: GCS
(BONWETSCH), p. 74.
[155]
Cf.
BENEDETTO XV, Decretum approbationis
virtutum in Causa beatificationis et
canonizationis Servi Dei Ioannis Nepomuceni
Neumann: AAS 14 (1922), p. 23; diversi
Discorsi di PIO XI sui Santi: Inviti all’eroismo,
in Discorsi e Radiomessaggi, tt.
1941-1942, passim; PIO XII, Discorsi e
Radiomessaggi, t. X, 1949, 37-43.
[156]
Cf. PIO XII, Encicl.
Mediator Dei: AAS 39 (1947), p. 581.
[157]
Cf. Eb 13,7; Sir 44-50; Eb 11,3-40. Cf.
anche PIO XII, Encicl.
Mediator Dei: AAS 39 (1947), p.
582-583.
[158]
Cf. CONC. VATICANO I, Cost. dogm. sulla fede
cattolica Dei Filius, cap. 3: Dz 1794
(3013) [Collantes 1.072].
[159]
Cf. PIO XII, Encicl.
Mystici Corporis: AAS 35 (1943), p.
216 [Collantes 8.161].
[160]
Circa
la riconoscenza verso i Santi, cf. E. DIEHL,
Inscriptiones latinae christianae veteres,
I, Berolini 1925, nn. 2008, 2382 e passim.
[161]
CONC.
DI TRENTO, Decr. De invocatione...
Sanctorum: Dz 984 (1821) [Collantes
7.343].
[162]
Breviario romano, Invitatorio nella
festa di Tutti i Santi.
[163]
Cf. per es. 2 Ts 1,10.
[164]
CONC.
VATICANO II, Cost. sulla Sacra Liturgia
Sacrosanctum Concilium, cap. 5, n.
104: AAS 56 (1964), pp. 125-126 [pag. 17ss].
[165]
Messale romano, Canone [Preghiera
Eucaristica I] della Messa.
[166]
CONC. DI NICEA II, Sess. VII: Dz 302 (600) [Collantes
7.336].
[167]
CONC. DI FIRENZE, Decretum pro Graecis:
Dz 693 (1304) [Collantes 0.022].
[168]
CONC.
DI TRENTO, Decr. de invocatione,
veneratione et reliquiis Sanctorum et
sacris imaginibus: Dz 984-88
(1821-24) [Collantes 7.343-47]; Decr. de
Purgatorio; Dz 983 (1820) [Collantes
0.029]; decr. De iustificatione, can.
30: Dz 840 (1580) [Collantes 8.113].
[169]
Messale romano, dal prefazio dei
Santi concesso alle diocesi di Francia.
[170]
Cf. S.
PIETRO CANISIO, Catechismus Maior seu
Summa Doctrinae christianae, cap. III
(ed. crit. F. STREICHER), Pars I, pp. 15-16,
n. 44 e pp. 100-101, n. 49.
[171]
Cf.
CONC. VATICANO II, Cost. sulla Sacra
Liturgia
Sacrosanctum Concilium, cap. I, n.
8: AAS 56 (1964), p. 401 [pag. 21].
[172]
Simbolo Costantinopolitano: MANSI 3, 566.
Cf. CONC. DI EFESO, ib. 4, 1130 (anche ib.
2, 665 e 4, 1071); CONC. DI CALC., ib. 7,
111-116; CONC. DI COSTANTINOPOLI II, ib. 9,
375-396 [Dz 150, 301, 422; Collantes 4.012,
4.020, 0.509]; Messale romano, nel
Credo.
[173]
Messale romano, nel Canone [Preghiera
eucaristica I].
[174]
S.
AGOSTINO, De S. Virginitate, 6: PL
40, 399.
[175]
Cf.
PAOLO VI,
Discorso al Concilio del 4 dic.1963:
AAS 56 (1964), p. 37 [0000].
[176]
Cf. S. GERMANO DI COST., Hom. in Annunt.
Deiparae: PG 98, 328A; In Dorm., 2: 357.
ANASTASIO D’ANTIOCHIA, Serm. 2 de Annunt.,
2: PG 89, 1377AB; Serm. 3, 2: 1388C. S.
ANDREA DI CRETA, Can. in B. V. Nat., 4: PG
97, 1321B; In B. V. Nat., 1: 812A; Hom. in
Dorm., 1: 1068C. S. SOFRONIO, Or. 2 in
Annunt., 18: PG 87(3), 3237BD.
[177]
S. IRENEO, Adv. Haer. III, 22, 4: PG 7,
959A; HARVEY, 2, 123.
[178]
S.
IRENEO, Adv. Haer. III, 22, 4: PG 7,
959A; HARVEY, 2, 124.
[179]
S. EPIFANIO, Haer. 78, 18: PG 42,
728CD-729AB.
[180]
S.
GIROLAMO, Epist. 22, 21: PL 22, 408.
Cf. S. AGOSTINO, Serm. 51, 2, 3: PL
38, 335; Serm. 232, 2: 1108. S.
CIRILLO DI GERUS., Catech. 12, 15: PG
33, 741AB. S. GIOV. CRISOSTOMO, In Ps.
44, 7: PG 55, 193. S. GIOV. DAMASCENO,
Hom. 2 in dorm. B.M.V., 3: PG 96,
728.
[181]
Cf.
CONC. LAT. del 649, can. 3: MANSI 10, 1151
[Dz 503; Collantes 4.044]. S. LEONE M.,
Epist. ad Flav.: PL 54, 759 [Dz 291;
Collantes 4.007]. CONC. DI CALC.: MANSI, 7,
462. S. AMBROGIO, De instit. virg.:
PL 16, 320.
[182]
Cf.
PIO XII, Encicl.
Mystici Corporis, 29 giugno 1943:
AAS 35 (1943), pp. 247-248 [Collantes
5.034-35].
[183]
Cf.
PIO IX, Bolla Ineffabilis, 8 dic.
1854: Acta Pii IX, 1, I, p. 616; Dz 1641
(2803) [Collantes 5.026].
[184]
Cf.
PIO XII, Cost. Apost.
Munificentissimus, 1° nov. 1950: AAS
42 (1950); Dz 2333 (3903) [Collantes 5.030].
Cf. S. GIOV. DAMASCENO, Enc. in dorm. Dei
genetricis, Hom. 2 e 3: PG 96, 721-761,
specialmente 728B. S. GERMANO DI
COSTANTINOP., In S. Dei gen. dorm.,
Serm. 1: PG 98(6), 340-348; Serm. 3: 361. S.
MODESTO DI GER., In dorm. SS. Deiparae:
PG 86(2), 3277-3312.
[185]
Cf.
PIO XII, Encicl.
Ad coeli Reginam, 11 ott. 1954: AAS
46 (1954), pp. 633-636: Dz 3913ss. Cf. S.
ANDREA DI CRETA, Hom. 3 in dorm. SS.
Deiparae: PG 97, 1089-1109. S. GIOV.
DAMASCENO, De fide orth, IV, 14: PG
94, 1153-1161.
[186]
Cf.
KLEUTGEN, testo riformato De mysterio
Verbi incarnati, cap. IV: MANSI 53, 290.
Cf. S. ANDREA DI CRETA, In nat. Mariae,
sermo 4: PG 97, 865A. S. GERMANO DI
COSTANTINOP., In annunt. Deiparae: PG
98, 321BC. In dorm. Deiparae, III:
361D. S. GIOV. DAMASCENO, In dorm. B. V.
Mariae, Hom. I, 8: PG 96, 712BC-713A.
[187]
Cf.
LEONE XIII, Encicl. Adiutricem populi,
5 sett. 1895: ASS 28 (1895-96), p. 129. S.
PIO X, Encicl. Ad diem illum, 2
febbr. 1904: Acta I, p. 154; Dz 1978a (3370)
[Collantes 5.032-33]. PIO XI, Encicl.
Miserentissimus, 8 maggio 1928: AAS
20 (1928), p. 178. PIO XII, Messaggio
Radiof., 13 maggio 1946: AAS 38 (1946),
p. 266.
[188]
Cf. S.
AMBROGIO, Epist. 63: PL 16, 1218.
[189]
Cf. S.
AMBROGIO, Expos. Lc. II, 7: PL 15,
1555.
[190]
Cf. Ps.
PIER DAM., Serm. 63: PL 144, 861AB.
GOFFREDO DI S. VITTORE, In nat. B. M.,
Ms. Parigi, Mazarine, 1002, fol. 109r.
GEROBO DI REICH., De gloria et honore
Filii hominis, 10: PL 194, 1105AB.
[191]
Cf. S.
AMBROGIO, Expos. Lc. II, 7 e X,
24-25: PL 15, 1555 e 1810. S. AGOSTINO,
In Io., Tr. 13, 12: PL 35, 1499. Cf.
Serm. 191, 2, 3: PL 38, 1010; ecc. Cf.
anche VEN. BEDA, In Lc. Expos. I,
cap. 2: PL 92, 330. ISACCO DELLA STELLA,
Serm. 51: PL 194, 1863A
[192]
Cf.
Breviario Romano, ant. "Sub tuum
praesidium" ai I Vespri del Piccolo
Ufficio della Beata Vergine Maria [nella
Liturgia delle Ore, antifona mariana di
Compieta].
[193]
Cf.
CONCILIO DI NICEA II, anno 787: MANSI 13,
378-279; Dz 302 (600-01) [Collantes
7.336-37]; CONC. DI TRENTO, Sess. 25: MANSI
33, 171-172 [Dz 1821-25; Collantes
7.343-47].
[194]
Cf. PIO XII, Messaggio radiof., 24
ott. 1954: AAS 46 (1954), p. 679; Encicl. Ad
caeli Reginam, 11 ott. 1954: AAS 46 (1954),
p. 637.
[195]
Cf. PIO XI, Encicl.
Ecclesiam Dei, 12 nov. 1923: AAS 15
(1923), p. 581. PIO XII, Encicl.
Fulgens corona, 8 sett. 1953: AAS 45
(1953), pp. 590-591.
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